Morte di un biografo di Santiago Gamboa
Autore: Giulia Zavagna
Testata: Flanerì
Data: 12 gennaio 2012
In un libro cerchiamo molte cose. Un rifugio, spesso. Insegnamento o ispirazione, a volte. Una storia, nel senso più limpido del termine, sempre. Cosa accade quindi se una storia, come luce in un prisma, si moltiplica e si tinge di mille diverse sfumature? E se a raccontarla non è un’unica voce, magari straordinaria, ma un folto campionario di umanità terribilmente comune?
È variegata ed esilarante la commedia umana che Santiago Gamboa inscena nel suo ultimo libro, Morte di un biografo (Edizioni e/o, 2011). Come sulle pagine di un Decameron contemporaneo, si ritrovano nei corridoi di un grande albergo tipi umani di ogni genere, ad animare una collezione di storie, singole perle che danno vita alla caotica collana del romanzo. La cornice non è la Firenze del Trecento, ma una Gerusalemme metaforica, immagine di una città sofferente, di tutte le città sul punto di essere annientate, massacrate, distrutte. Non è la peste a creare il pretesto che riunisce i personaggi, eccentrici e a tratti surreali, ma la guerra che affligge Gerusalemme, città che ospita il Congresso Internazionale di Biografi e della Memoria, intorno al quale gravitano i soggetti più strampalati.
Uno scrittore in crisi, bloccato da due anni a causa di una malattia, riceve un inaspettato invito a partecipare al congresso e accetta con entusiasmo, convinto che la distrazione e il viaggio possano favorire la sua ripresa. Questo è il piano narrativo dal quale si sviluppano tutti gli altri, in un intricato caleidoscopio di storie: un antiquario, un bibliofilo saccente, un editore esigentissimo, una pornostar italiana con velleità sinistroidi, un filatelico, una giornalista culturale in amore e un «ex pastore evangelico, ex delinquente, ex drogato». A tali narratori corrisponderà una serie di personaggi narrati, in una molteplicità di registri linguistici e spazi narrativi: dalla Svezia alla Colombia, passando per Parigi, Miami e Johannesburg, per terminare sull’isola di Tristan da Cunha, «l’espressione geografica della solitudine». Un mosaico, dunque, quello creato da Gamboa, che però semina qua e là alcuni elementi di raccordo, a formare un amalgama coerente ed esilarante, dal quale difficilmente il lettore riesce a distrarsi, tanto che le quasi cinquecento pagine del tomo scorrono via senza fatica.
Le relazioni dei congressisti che, capitolo dopo capitolo, prendono la parola sono, curiosamente, biografie straordinarie di gente comune: due scacchisti che si accontentano della mediocrità, una sorta di Edmond Dantès colombiano alla ricerca di vendetta, un aviatore in fin di vita… Racconti spesso interrotti da esplosioni e black out: parola, linguaggio e narrazione vengono bloccati dalla guerra, che invade fisicamente lo spazio narrativo, costringendo i personaggi a non lasciare l’albergo e generando, paradossalmente, nuove narrazioni.
Bastano poi un sandwich di pollo, una coca-cola light e ammiccamenti letterari più o meno velati, che ritroviamo in ogni episodio, a domare il vortice della polifonia, maneggiato sapientemente dall’autore. Le storie si intrecciano seguendo un fil rouge che tende a far virare il romanzo sul poliziesco: José Maturana, ex pastore evangelico, seguace di un dio ventenne, tatuato e palestrato, viene trovato morto nella sua stanza d’albergo poche ore dopo il suo intervento al convegno, un’apologia del cosiddetto Ministero della Misericordia. Tutto lascia pensare che si tratti di un suicidio, ma lo scrittore, alter ego di Gamboa, non si lascia convincere e inizia una personalissima indagine sul nebuloso passato dell’evangelico. Ognuno darà la sua opinione sull’accaduto, che per lo scrittore si trasformerà inevitabilmente in materia narrativa: è così che Gamboa sviluppa in parallelo alla narrazione anche un brillante discorso metaletterario. Poco a poco, infatti, l’autore ci racconta la genesi del romanzo che abbiamo tra le mani, frutto di quello sguardo sul mondo comune a molti scrittori latino-americani: assolutamente ironico e, allo stesso tempo, irrimediabilmente malinconico.