(...) “Nessuno di loro si era neanche mai avvicinato al comando di una fazione di militanti palestinesi. Nessuno aveva mai messo piede nei dintorni di un tunnel del terrore, o visto di persona un arsenale di razzi. Erano tutti scemi o soltanto dei monumentali cagasotto? Per me andavano bene entrambe le opzioni. Questa guerra era ancora tutta nelle mie mani”. Non c’è massacro o strage che la emozioni: “A chi mai può servire una giornalista che piange?”. E invece, diceva uno tra i più grandi inviati di guerra di sempre, Ryszard Kapuscinski, da Il cinico non è adatto a questo mestiere (anche questo e/o): “Occorre distinguere: una cosa è essere scettici, realisti, prudenti. Questo è assolutamente necessario, altrimenti non si potrebbe fare giornalismo. Tutt’altra cosa è essere cinici, un atteggiamento incompatibile con la professione del giornalista. Il cinismo è un atteggiamento inumano, che allontana automaticamente dal nostro mestiere, almeno se lo si concepisce in modo serio […] Come sapete, ogni anno più di cento giornalisti vengono uccisi e varie centinaia vengono messi in prigione oppure torturati. In varie parti del mondo si tratta di una professione molto pericolosa. Chi decide di fare questo lavoro ed è disposto a pagarne il prezzo sulla propria pelle, con rischio e sofferenza, non può essere cinico”.
Secondo l’ultimo report di Reporter Senza Frontiere, sono 67 in tutto i giornalisti uccisi in tutto il mondo, il 79% vittime della guerra o della criminalità organizzata, il 43% nella Striscia. E insomma, è tutto questo: la spietatezza di The Jackal o l’acume di Tutti gli uomini del Presidente, il cinismo di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e l’eroismo di Fortapàsc. Sarà offerta chiaramente quale attitudine finisca per sabotare il giornalismo stesso. Soltanto quando segue un gruppo di ragazzini che giocano a pallone sulla spiaggia in mezzo alle macerie, Sara Byrne sembra aver messo per la prima volta piede a Gaza. Oltre grottesche antropomorfizzazioni, Avvoltoi si legge come un romanzo veloce e caustico, dalla satira feroce e irreparabile. Si interroga sul senso di un mestiere antico quasi quanto il mestiere più antico del mondo, necessario e ambiguo allo stesso tempo, mai così in crisi come in questi anni: sul senso di raccogliere le storie degli altri, di farne un trampolino o una prova del reato o entrambe le cose insieme. Non sarà mai un lavoro normale.