(...) Come si racconta una verità che nessuno vuole ascoltare? È la domanda che tormenta i protagonisti del nuovo libro di Abel Quentin, I quattro che predissero la fine del mondo , in uscita il 27 agosto per e/o. Alla base c'è una storia vera, quella dei quattro scienziati che, insieme al pioniere della dinamica di sistemi Jay W. Forrester, lavorarono al Rapporto sui limiti dello sviluppo , vale a dire il più terrificante oracolo che l'umanità abbia mai ricevuto. È la storia di quando abbiamo avuto la possibilità di salvare il mondo e abbiamo deciso di non farlo: Quentin la racconta con gli strumenti del romanzo corale, scritto in punta di penna, inaspettatamente divertente (considerato il tema), in cui i quattro si trovano a diventare loro malgrado delle Cassandre.
Tutto comincia nel 1970, quando Daniel W. Stoddard (l'alter ego di Forrester) recluta Mildred e Eugene Dundee, Johannes Gudsonn e Paul Quérillot perché lo aiutino a prevedere il momento in cui le curve di crescita dell'economia globale supereranno il punto di collasso. Stoddard ha sviluppato un modello, Global3 (nella realtà era World3), che combina i dati relativi a produzione alimentare, crescita industriale, inquinamento, popolazione e consumo di risorse non rinnovabili, per simulare possibili scenari futuri. In cuor suo sa che l'umanità procede spedita verso il baratro, ma non si aspetta un responso così cupo. Per lo scenario business as usual , in cui i trend di sviluppo non cambieranno più di tanto, il crollo della civiltà umana è previsto tra il 2040 e il 2050, con i primi segni di cedimento intorno al 2020.
È una verità agghiacciante, ma può risultare galvanizzante per chi la scopre: se non altro, pensa Stoddard, abbiamo individuato la mina prima di calpestarla; c'è tutto il tempo per cambiare rotta. Quello che sottovaluta è la resistenza del sistema, e delle persone in genere, a tutto ciò che riguarda il futuro. I risultati vengono presentati negli ambienti accademici e raccolgono più diffidenza che altro: molti, in particolare gli economisti, sostengono che i quattro abbiano trascurato la straordinaria capacità umana di trovare soluzioni tecnologiche a qualunque problema, nonché la capacità del mercato di autoregolarsi. Insomma, il lavoro di anni rischia di essere liquidato come bizzarria teorica ai limiti del complottismo.
C'è una verità terribile che nessuno vuole ascoltare, sicuramente non sotto forma di dati e proiezioni. Così i quattro decidono di renderla più potabile: prendono i risultati del loro oracolo informatico e ci ricamano attorno un libro. Il Rapporto 21 esce nel 1972, viene tradotto in decine di lingue e nel giro di pochi anni arriva a vendere milioni di copie. I quattro scienziati diventano delle star, vengono invitati a parlare in tutto il mondo, sembra che le cose si stiano finalmente muovendo. E invece nel giro di qualche mese il rapporto finisce nel dimenticatoio.
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Non è un caso che il romanzo di Quentin diventi davvero interessante quando si stacca dal piano reale per raccontare la vita (in gran parte inventata) dei personaggi: c'è chi si ritira in un eremo verde, chi continua a urlare alle conferenze, chi si fa prendere dal cinismo e passa nella trincea nemica, e chi si chiude in un'alienazione senza ritorno. Le vicende dei quattro sono un campione dell'ampio ventaglio di reazioni umane di fronte alla catastrofe. Non ragioniamo tutti allo stesso modo, per questo le risposte stentoree non ottengono la convergenza sperata.
Dalle ricerche più recenti sulla psicologia comportamentale sappiamo che le persone tendono a essere più ricettive se un problema viene presentato in forma di domanda piuttosto che come affermazione. Una domanda innesca una conversazione, assegna a chi ascolta un ruolo attivo; un po' come un romanzo per funzionare richiede la partecipazione immersiva del lettore.
Quando si parla di fine del mondo, però, le affermazioni tendono a surclassare le domande.
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