(...) Oggi Galgut è tornato con una storia breve, scritta molti anni prima, dove i temi della colpa, dell'ingiustizia, della marginalità che si fa protagonista sono già tutti tratteggiati: "La preda" (tradotto ancora una volta da Tiziana Lo Porto per e/o). E pone il lettore in una di quelle scomode posizioni a cui uno come il regista Peter Brook costringeva a teatro: lasciando un condannato seduto da solo in pieno deserto, davanti a un'enorme prigione a scegliere da sé la sua pena, senza bisogno di catene. Con carcerati e guardiani che si fissano, attori e pubblico che si specchiano, ognuno scontando la propria punizione. Un uomo commette un omicidio: uccide un prete, ne ruba l'identità, maschera il crimine, nasconde altri misfatti, si imbatte in un poliziotto che non lo molla un istante e lo annusa, anzi, gira intorno alla sua preda, lo sfinisce con un devastante sospetto. Intanto l'attesa si popola di comparse, di voci fuori e dentro il palcoscenico, testimoni e giudici, fedeli dentro una chiesa, un uomo che si specchia nella fiamma di un cerino, una folla affamata che pretende il suo pasto. Con una scrittura trasparente al servizio dei sensi e con un fraseggio contenuto e affilato che si riversa in capitoli sempre più simili a frammenti, "La preda" è un girovagare intorno al bene e al male, a ciò che ci rende umani o ci accomuna alle bestie, che sbalza di continuo dal chiarore delle stelle al buio fitto della notte.