(...) Con Una maschera color del cielo (Edizioni e/o) il quarantunenne Bassam Khandaqji intende tornare a parlarci dell'esperienza chiave del popolo palestinese dal 1948 a oggi: la Nakba, ovvero la «catastrofe», l'espulsione forzata e violenta di oltre 700 mila arabi dalle loro case al momento della nascita di Israele. Un tema oggi tornato all'ordine del giorno a causa dei massacri di decine di migliaia di palestinesi per mano delle truppe israeliane nella striscia di Gaza dopo il gravissimo eccidio commesso da Hamas il 7 ottobre 2023.
Per lungo tempo, dopo la dichiarazione d'indipendenza dello Stato ebraico nel maggio 1948, la propaganda israeliana ha fatto del suo meglio per occultare i massacri e la cacciata forzosa dei palestinesi, sostenendo che l'esodo era stato una libera scelta della popolazione impaurita o addirittura incoraggiata dai leader arabi a scappare in attesa del ritorno garantito da quella che era prospettata come l'inevitabile sconfitta delle forze ebraiche. Sono poi state le vittorie israeliane a generare l'effetto paradossale del ritorno della memoria della Nakba. La si voleva nascondere sotto il tappeto, ma intanto la narrazione della cacciata palestinese diventava con il trascorrere degli anni sempre più forte e radicata.
Il 1967 vide gli arabi israeliani rimasti nei loro villaggi dopo il 1948 ricongiungersi con i fratelli di Cisgiordania e Gaza, da cui erano stati separati con la guerra. Nel 1987 la prima Intifada, la grande rivolta nei territori occupati, portò alla rinascita dell'identità collettiva palestinese contro il molto più forte esercito israeliano, nonostante la crescita del movimento dei coloni ebrei. E adesso gli orrori dei trasferimenti forzati dei gazawi non fanno che perpetuare l'incubo di una Nakba bis, sia nella Striscia che in prospettiva anche in Cisgiordania.
Khandaqji soffre tutto sulla sua pelle. Nato nel 1983 a Nablus, ha solo 4 anni allo scoppio della prima Intifada, a 15 entra nel Fronte popolare per la liberazione della Palestina, il movimento marxista-leninista che rifiuta il radicalismo islamico di Hamas, ma ne condivide le strategie di lotta armata. Nel 2004, a soli 21 anni, viene arrestato e condannato a diversi ergastoli con l'accusa di avere partecipato alla preparazione di un attentato sucida che ha causato la morte di tre israeliani. Lo Human Rights Council dell'Onu ha messo in dubbio le prove: ne chiede la liberazione. Israele guarda dall'altra parte: è dal 1967 che i sistemi repressivi dell'occupazione vengono condannati dagli organismi internazionali, ma le conseguenze sono sempre state irrisorie.
Lui intanto scrive, non vuole abbrutirsi in carcere, studia per corrispondenza. Questo libro è stato scritto di nascosto in cella e i capitoli sono stati passati segretamente su «pizzini» ad amici e famigliari, che poi li hanno messi assieme e consegnati a un editore libanese, che ha pubblicato la prima versione araba del libro.
L'archeologo-scrittore del romanzo ha la sua stessa età e si chiama Nur Mahdi al-Shahdi. Un palestinese che ha le sembianze di un ebreo askenazita e ha imparato l'ebraico perfettamente. Il dettaglio è fondamentale, perché è proprio nella discriminazione sociale che crescono ingiustizie, disuguaglianze e razzismo. «In questo Paese gli accenti linguistici e i tratti somatici dettano i rapporti umani», osserva. Grazie al suo aspetto e alla padronanza della lingua ebraica, lui passa inosservato i posti di blocco militari dove i suoi famigliari vengono invece fermati. Nur si bea di questa immunità: non è un traditore, però ama l'illusione di poter vivere la sua pretesa identità ebraica muovendosi liberamente. E la cosa diventa più semplice quando, a una bancarella del mercato dell'usato di Jaffa, compra un cappotto di seconda mano e nel taschino interno trova la carta d'identità di Ur Shapiro, un israeliano residente a Tel Aviv e di età simile alla sua. La fa falsificare da amici specializzati nel modificare i lasciapassare per i pendolari palestinesi della Cisgiordania, che ogni giorno trovano lavori precari nelle aziende israeliane. (...)