Al di là della trama di Una maschera color del cielo, con cui Basim Khandaqji ha meritato il premio internazionale di narrativa araba, il romanzo del quarantunenne palestinese di Nablus, da vent'anni detenuto in carcere in Israele, oggi in quello di Gilboa, è una preziosa fonte di riflessioni sulle pieghe e le fratture nel rapporto tra i due popoli che, nella visione della diplomazia occidentale, dovrebbero coesistere in pace in due Stati vicini. Il protagonista Nur al-Shahdi è un trentenne palestinese che vive in un campo profughi vicino a Ramallah, città di «ferro e ruggine» con cui ha un rapporto «di insofferenza e sputi reciproci» ma sogna «pietre e profumi» di Gerusalemme, con cui vive «una storia d'amore». (...)
Dopo il 7 ottobre, la lettura del suo romanzo porta a galla anche altre considerazioni. Nelle carceri israeliane, i detenuti palestinesi hanno l'opportunità - e alcuni di loro la sfruttano fino in fondo, così ha fatto il capo di Hamas, Yahya Sinwar - di entrare nella testa degli israeliani, di approfondire la conoscenza delle più sottili sfumature della società, di acquisirne espressioni idiomatiche in ebraico. Come dice il protagonista Nur, «per zelo e non per amore». Lui vuole imparare la lingua dell'altro «per proteggersi da quelli che la parlavano». Così l'arabo è «la lingua del cuore», l'inglese quella «della mente» e l'ebraico «la lingua della sua ombra». E quando Khandaqji mette in scena dialoghi che si svolgono nella mente del suo personaggio Nur con il suo doppio Ur, in cui i due antagonisti si confrontano, si scambiano accuse, rancori e minacce, in questo gioco di specchi e riflessioni, in realtà non ci sono due popoli che si affrontano. Ce n'è uno solo, che dimostra di conoscere l'altro come le sue tasche.