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Una maschera color del cielo, il romanzo di un detenuto palestinese all’ergastolo: come cambia la vita di un profugo con una carta d’identità israeliana in tasca?

Autore: Elena Rosselli
Testata: FQ Magazine
Data: 20 settembre 2024
URL: https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/09/20/detenuto-palestinese-ergastolo-romanzo/7687711/

Il testo di Bassem Khandaqji, tradotto da Barbara Teresi per E/O, ha vinto l'International Prize for Arabic Fiction, il più prestigioso riconoscimento per la letteratura di lingua araba. L'autore è in carcere dal 2004, ma ha già pubblicato poesie, romanzi e articoli

La letteratura palestinese contemporanea è viva e, in tempi non biblici, per una volta, arriva fino a noi, in italiano. Grazie alla casa editrice E/O e alla traduzione di Barbara Teresi, dal 25 settembre, sarà disponile in libreria, “Una maschera color del cielo”, il romanzo di Bassem Khandaqji, che ha vinto l’International Prize for Arabic Fiction, il più prestigioso riconoscimento per la letteratura di lingua araba, ottenendo anche un premio di 50mila dollari per agevolarne la traduzione in inglese. Il premio in denaro, oltre all’importanza della nomina prima e della vittoria poi, ha scatenato molte polemiche sulla stampa israeliana perché Bassem non è un autore qualsiasi, ma un prigioniero palestinese – nato nel 1983 a Nablus, nella Cisgiordania occupata – da 20 anni nelle carceri israeliane, condannato a tre ergastoli nel 2005 per l’attentato del 1° novembre 2004 al Carmel Market di Tel Aviv, in cui morirono 3 persone e 50 rimasero ferite a seguito di un attentato suicida compiuto da un 16enne.

Nel 2004, infatti, siamo nel pieno della Seconda Intifada e per uno studente ventenne, che a 15 anni si era unito alle file dell’allora Partito comunista del Popolo palestinese, la lotta per la sopravvivenza del proprio popolo è pane quotidiano. Sono gli anni in cui Ariel Sharon, un militare, anzi un generale, è il premier israeliano, gli anni in cui lanciare una pietra contro un blindato è già diventato un reato punibile con la prigione. Del resto, se dopo 20 anni passati in varie carceri israeliane, Bassem trova ancora la forza e il coraggio di scrivere romanzi (questo tradotto in italiano non è il primo, ndr), poesie e articoli, in cui denuncia “il fascismo della sorveglianza del mio popolo nella Cisgiordania”, nonostante le punizioni che comporta la fuoriuscita di qualsiasi materiale, anche letterario, oltre le mura carcerarie, si può pensare che il suo spirito combattivo, allora come oggi, sia rimasto indomito.

Questa forza d’animo prorompe da ogni pagina di “Una maschera color del cielo”: il protagonista, Nur, è un palestinese, nato in un campo profughi vicino a Ramallah in Cisgiordania. Ricercatore in storia e archeologia, è anche uno dei tanti lavoratori che ha bisogno di un permesso del governo israeliano per trovare un umile impiego “nel cuore dell’entità sionista”. In queste vesti dibatte con se stesso, in perenne conflitto sul suo ruolo in una società modellata dall’occupazione. Il suo migliore amico, Murad, in carcere con una condanna all’ergastolo, rappresenta non solo l’alter ego politico dell’autore, ma anche il grillo parlante che spinge Nur a chiedersi continuamente: “Che importanza può avere l’archeologia per chi vive in un campo profughi?!”. Basta però guardare l’homepage di un giornale progressista come Haaretz per rendersi conto dello spazio riservato a questa disciplina – subito sotto le ultime su guerra e politica – perché è tramite la sua deformazione, che le città hanno cambiato nome e così l’intero Paese: là dove un israeliano vede la traccia di ciò che c’è scritto nella Torah e con essa una legittimazione di se stesso in quel preciso luogo (nel libro è l’episodio della tomba di Sansone, nuovo nome per ciò che resta , in realtà, della cittadina palestinese di Saraa, distrutta per far posto al kibbutz Tzora, ndr), un palestinese ricorda ciò che c’era prima. Prima del 1948, prima della Nakba. Prima che la Palestina smettesse d’esistere nella sua interezza. (...)