Sono piccole, alcune hanno ancora i denti da latte. Altre, invece, hanno le prime forme sul petto. Sono bambine fra i 6 e 17 anni, che si accalcano davanti alla Camera del lavoro, a Milano. Urlano, sono senza i loro genitori; consegnano volantini con su scritto: «Mi son la piscinina, mica la schiava». Alzano la voce, per la prima volta in vita loro: «Sciopero! Sciopero!». Quelle bambine stanno segnando la storia dei diritti nel lavoro minorile e femminile in Italia. È il 1902 e le «piscinine» — questo il loro nome in dialetto — sono apprendiste sarte, modiste, corriere, che consegnano a piedi, in tutta la città, grossi pacchi con vestiti realizzati su misura dagli opifici tessili e dalle botteghe sartoriali. Sono al servizio delle «maestre», che non le retribuiscono e non insegnano loro il mestiere. E oltre ai soprusi salariali, sono costrette a subirne di peggiori, in silenzio, perché nessuno crede loro: le molestie e le violenze sessuali praticate dai mariti, e dagli uomini di casa, delle loro «maestre».
Tra loro c’è anche Nora, 15 anni, balbuziente, povera, quasi analfabeta e insicura. Ma con una forza sconosciuta nascosta dentro lei, e di cui ancora non conosce il potenziale. Ispirata al quadro La piscinina di Emilio Longoni (1859-1932) del 1891, la ragazza è la protagonista del nuovo romanzo di Silvia Montemurro (1987), La piccinina, appena uscito per edizioni e/o, che unisce la storia di quegli straordinari fatti storici alla vita personale, difficile, della piccola Nora: le prime amicizie, la scoperta dell’amore e del proprio corpo, le dinamiche violente delle famiglie in quegli anni. Fino al confronto con la dura e spietata realtà che vivono le bambine di quell’epoca. (...)