(...) Non c’è niente di lubrico, di pruriginoso, in Autoritratto newyorkese, c’è anzi il coraggio di mostrare una realtà spesso sgradevole, di descrivere in termini asciutti, quasi asettici, le scelte di vita, o meglio di sopravvivenza, dei personaggi. Anche il linguaggio ha la nitidezza dello scatto fotografico ad alta risoluzione, descrittivo e lineare, a tratti clinico. L’indagine non lascia scampo, vivida nei dettagli come un’immagine, e l’impulso che coglie il lettore è ora quello di scrollare forte per le spalle il giovane protagonista, ora di abbracciarlo, di salvarlo da dinamiche che sono chiare solo se osservate da fuori, o a posteriori. Maurizio Fiorino compone un’opera in cui sono riconoscibili alcuni tratti delle precedenti, ma in cui si percepisce soprattutto un lavoro di scarnificazione per arrivare, a qualsiasi costo, fosse anche quello di esporre la carne viva, a una qualche verità.