Il romanzo di Gamboa, il colombiano che scrive come se fosse sul ring
Autore: Marco Cicala
Testata: Il Venerdì
Data: 7 ottobre 2011
Non ci sarebbe quasi nemmeno il bisogno di romanzare. Perché i convegni – specie quelli letterari – sono spesso, «in sé», monumentali concentrati di surrealtà. Qui però il simposio raccoglie relatori singolari assai. Tra i quali: un industriale colombiano, «mecenate» di squadroni della morte; una pornostar italiana molto colta e sinistrorsa; ma soprattutto un energumeno sudamericano che è stato junkie, galeotto e predicatore per conto di Gesù, e a un certo punto viene trovato cadavere. Dunque, si indaga. In un'atmosfera boccaccesca. Non tanto per l'elemento licenzioso, che pure non manca, quanto perché tutti i congressisti son stati convocati a raccontare storie. Anzi, biografie. Fuori non c'è la peste del Decameron ma una Gerusalemme affumicata di bombe – che, al limite, è pure peggio. Comunque la geopolitica non c'entra. «Non è la Gerusalemme del conflitto israelopalestinese, ma una città-metafora della distruzione, della bellezza, della morte – nella quale i personaggi si ritrovano assediati » dice Santiago Gamboa. È nato a Bogotà nel 1965. Morte di un biografo (edizioni e/o; titolo originale Necròpolis) è il suo quarto libro tradotto in italiano. Cesellato, polifonico, ma occhio – sta qui il bello – dotato di potenza pugilistica. Gamboa ha fatto il giornalista e lavorato nella diplomazia. Dopo Madrid, Parigi, Nuova Delhi, adesso vive a Roma («Una delle poche capitali europee dove il misto di caos e modernità, rigidità e isteria, resta a livelli accettabili – purché duri»). Vive a Roma o quasi. Rincorrendolo via email tra la Colombia e l'Ecuador, ti dice cose tipo: «I convegni letterari? Possono essere divertenti, oppure esasperanti. Trovi scrittori incatenati al proprio ego come Prometeo alla roccia, però in maggioranza sono autori che si sentono sottovalutati. C'è da capirli. Ogni vero scrittore si espone al rischio del fallimento. E il fallimento letterario è il peggiore di tutti. Perché è integrale. Si abbatte sulla tua vita, il tuo passato, i tuoi sogni, le tue ambizioni». Gamboa appartiene a quella fascia anagrafica di scrittori sudamericani che non ne possono davvero più di sentirsi chiamare «scrittori sudamericani». Perché, sì, «García Márquez bisogna continuare a leggerlo, però dimenticando per sempre gli emuli», ma ormai «letteratura latinoamericana » – ammesso che questa definizione abbia mai avuto un senso – non significa più un tubo. Si tratta di una letteratura de-territorializzata come qualsiasi altra. «Che importa se uno è nato a Cuba o in Messico?». Da sempre, lo scrittore «deve reinventare la letteratura da zero ». E le radici? Pure. Il «romanzo sudamericano» fece boom anche perché blandiva i desiderata del mercato euro-Usa in fatto di esotismo, magia, romanticismo rivoluzionario. E oggi? Il latinoamericano «è un continente un po' alla deriva, cerca identità, una mano amica». Allora allungate la mano, e afferrate l'ultimo Gamboa. Poi ne riparliamo.