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Naspini, e Renè che fa?
«Renè è uno di quelli che è sempre rimasto fuori dai giochi, sempre a guardare, mai in discussione: precipita nella Storia con la s maiuscola. Non può più tirarsi indietro, comincia a farsi un’idea di cosa stia succedendo attorno a lui».
La guerra, la Resistenza, la fame. Perché proprio lui?
«Mi piaceva l’idea di un personaggio che avesse messo la vita e i sentimenti in folle: non ha mai azzardato una mossa diversa dal tragitto casa-bottega, eppure farà un paio di azioni di forte coraggio. Non è un antieroe, ma è sicuramente un eroe della quotidianità. La Storia a un certo punto diciamo che bussa alla sua finestra».
E Roccatederighi?
«Sono nato a Grosseto, i primi sei anni della mia vita sono stato in quei luoghi che nel romanzo (ma anche in altri) chiamo “Le Case”. Quando arrivava l’argomento della villa del seminario se ne parlava sottovoce: “Là sono successe cose…”. Ho messo insieme un po’ di pezzi. Ho conosciuto questa vicenda, nota da pochissimi: o meglio, non c’è stato modo di trovare testimonianze orali, ci sono persone nate a Roccatederighi di 60-70 anni che non ne sanno nulla. Finché nel 2008 non è stata messa la lapide che ricorda del campo di concentramento. Qualche informazione è contenuta nel “Muro degli ebrei” di Ariel Paggi. Mi sono chiesto, in questo contesto, nel quale la stessa guerra viene percepita in un modo diverso, come reagisce la gente del posto? All’ordine del giorno c’erano la guerra, la fame (mio bisnonno nel dicembre del ’43 morì proprio per questo), uno sguardo obbligato verso la casa e non verso “fuori”».
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