Una cartolina arrivata nella cassetta delle lettere di famiglia, tra decine di biglietti di auguri natalizi, a Parigi nel 2003. Il disegno dell'Opéra Garnier sul fronte e quattro nomi sul retro: Ephraïm, Emma, Noémie e Jacques. Tutti morti ad Auschwitz nel 1942. Così inizia una lunga e sorprendente ricerca per risolvere il mistero, tra investigatori privati, grafologi di nome Jesùs, ebraismo e un viaggio tra Francia, Russia, Romania e Lituania. Non è fantasia, ma realtà. Tutto è accaduto ad Anne Berest, scrittrice e sceneggiatrice, che ha trasformato la sua esperienza nel romanzo La cartolina (e/o), best seller in Francia, premiato, tra gli altri, con il Premio Renaudot liceali 2021 e il Premio letterario degli studenti di Sciences Po 2022. Una saga familiare, che tiene insieme thriller, saggio storico e memoir, pur raccontando la tragedia della Shoah. «È tutto vero», tiene a sottolineare Berest, occhi grigi ed eleganza francese apprezzata pure dalla maison Chanel dell'era Lagerfeld, di cui è stata testimonial. «La vita è il migliore degli scrittori».
Perché ha deciso di raccontare questa storia dopo più di 18 anni?
«L'arrivo della cartolina turbò la nostra famiglia. I nomi che vi erano scritti sopra erano quelli dei genitori e dei fratelli di mia nonna Myriam, uccisi nei campi di concentramento. Lei (critica d'arte sposata in seconde nozze con il pittore Francis Picabia ndr ) era l'unica sopravvissuta, ma non ha mai parlato troppo del suo passato. Dodici anni dopo, nel 2015, mia figlia, che allora aveva sei anni, è tornata da scuola e ha chiesto a mia mamma se fosse ebrea. Le ha risposto di sì e le ha detto che anche io lo ero e lei ha ribattuto con un'espressione infastidita: "Quindi anche io lo sono. Non so se mi piace, a scuola gli ebrei non sono molto amati". Era traumatizzata. Mi sono ricordata che anche io, da bambina, mi ero ritrovata in una situazione molto simile e pure mia madre. C'era una presa di coscienza delle origini ebraiche un po' sofferta che continuava a tornare, generazione dopo generazione. Non siamo mai stati religiosi ed era come se la nostra identità ebraica esistesse attraverso le definizioni degli altri. Il passato continuava a entrare nel presente. Era giunto il momento di indagare la storia della mia famiglia e mi è subito tornata in mente la cartolina».
Così inizia la sua indagine. È andata davvero come racconta nel libro?
«È tutto vero. Per prima cosa mi sono rivolta a un grafologo esperto, di origini spagnole. Quando ho scoperto che si chiamava Jesùs non potevo crederci, la mia fantasia di scrittrice non sarebbe mai arrivata a tanto: un uomo di nome Gesù che indagava su un gruppo di ebrei. Mi sono immersa nella storia della mia famiglia, tornando indietro di un secolo, ho consultato archivi, parlato con investigatori privati. Ho ripercorso l'esistenza romanzesca dei Rabinovitch, tra Russia, Lituania, Romania, Palestina e Francia. Uomini e donne che prima di essere annientati dalla ferocia nazista avevano viaggiato, amato, tradito, vissuto. Soprattutto mi sono interrogata su cosa voglia dire essere ebrea mentre si conduce un'esistenza laica». (...)