Un celebre pittore dalla vita scandalosa. Un giovane gallerista ambizioso. Un agente del Kgb che ama l'arte e gli abiti di Pierre Cardin. Potrebbero essere i personaggi di un thriller alla Gorky Park, sono invece i protagonisti della storia vera che l'inglese James Birch ricostruisce nel suo brillante Bacon a Mosca, appena edito in Italia da e/o. Si tratta del racconto autobiografico di come, ai tempi in cui aveva una piccola galleria vicino Bond Street, a Londra, ebbe l'idea di portare gli artisti occidentali oltre cortina. E di come si imbarcò nell'avventura di far arrivare nell'Urss della perestrojka 44 quadri del più scandaloso e geniale di tutti loro, Francis Bacon. La mostra aprì le porte nel settembre 1988 alla Casa degli Artisti di Mosca e sembrò l'annuncio di una nuova stagione di dialogo tra est e ovest. Riletta oggi, mentre il mondo guarda con orrore al conflitto scatenato da Putin in Ucraina, ha il fascino malinconico delle occasioni perdute.
Partiamo dall'inizio. Come nacque l'idea di portare Bacon a Mosca?
«Avevo la mia galleria, promuovevo artisti emergenti. Nel 1985 a una festa conobbi un tizio che comprava tappeti nelle ex repubbliche sovietiche. Mi incuriosì. Fu lui a mettermi in contatto con Klokov, che poi divenne il "mediatore culturale" dell'intera faccenda della mostra».
Klokov era un agente del Kgb.
«All'inizio non avevo ben capito con chi avevo a che fare, anche se mi era chiaro che lavorava per il governo. Lo incontrai a Parigi e a Londra. Io volevo portare a Mosca i neo naturisti della mia galleria, giovani stravaganti che facevano performance, e con quell'idea feci il primo viaggio in Russia. Klokov fu la mia guida. Era aperto con me, su alcune cose naïf, su altre molto guardingo. Veniva da una sorta di aristocrazia sovietica. Nella dacia dei suoi genitori c'era una foto di lui bambino con l'astronauta Gagarin».
In quel primo viaggio in Russia la portarono a incontrare molti artisti nei loro studi. Tutti conoscevano e amavano Bacon. Perché?
«In Russia c'era solo il realismo socialista: uomini che sventolavano bandiere e cose del genere. In Bacon, che conoscevano solo attraverso le foto di riviste sbiadite arrivate lì chissà come, vedevano invece la loro vita e ciò da cui venivano: tumulto e distruzione. Era la generazione cresciuta dopo la Seconda guerra mondiale, dopo la Shoah. Non avevano processato ciò che era accaduto, ma lo vedevano riflesso in quei quadri. Klokov voleva che portassimo in Russia Warhol, ma io lì pensai che dovesse essere Francis».
Chi era Bacon per lei?
«So che ha la fama di uomo difficile e vizioso, e certamente lo era. Ma era anche l'uomo più educato che abbia conosciuto. Era un amico di famiglia e per lungo tempo, a Londra, l'ho incontrato due, tre volte a settimana. Andavamo a pranzo o a cena; amava i ristoranti vecchi stile, tipo Wiltons, un posto da ostriche e champagne. La prima volta che ci andammo non avevo la cravatta; Francis andò a comprarmene una per farmi entrare. Intuiva immediatamente la natura degli esseri umani e delle situazioni. Quando gli chiesi se voleva esporre a a Mosca, mi rispose subito sì. E aggiunse che a Berlino, anni prima, dei marinai russi erano stati molto carini con lui».
A parte questo dettaglio malizioso, amava la Russia?
«Ėjzenstejn era molto importante per lui. Diceva che se fosse venuto a Mosca per l'inaugurazione, cosa che poi non fece per problemi di salute, avrebbe preso un treno per San Pietroburgo e sarebbe andato a vedere Rembrandt all'Ermitage».
Bacon disse sì, ma anche la burocrazia russa diede l'assenso a invitare l'artista più disturbante del momento. Due miracoli in uno.
«Una volta che la mostra fu decisa, non c'era dubbio che fosse scritto sulla pietra che si sarebbe fatta. Con i paesi socialisti funzionava così.
Gorbaciov in quel momento voleva cambiare l'Unione Sovietica e aprirsi al mondo e sono sicuro che ciò che facemmo non sarebbe stato in alcun modo possibile in un altro momento. Ma certo, fu comunque un miracolo. Il regime allora era molto conservatore. Pensiamo a Bacon, al suo stile di vita e all'effetto che poteva fare. Durante la conferenza stampa di inagurazione un giornalista chiese al direttore dell'Unione degli artisti che ci ospitava: "Perché si mostra in Unione Sovietica il lavoro di Francis Bacon, che è un noto omosessuale?". Non dimentichiamo che per il fatto di essere omosessuali in Urss si poteva finire nei gulag. Lui rispose: "Ci interessano i dipinti di Bacon, non il suo stile di vita". Una risposta intelligente».
Lei scrive che all'epoca era idealista, pensava di poter cambiare lo sguardo dei russi attraverso l'arte.
«Avevo anche io una sorta di piano quinquennale, per usare un'espressione sovietica; volevo portare lì anche Gilbert & George. Non immaginavo che il collasso del sistema sarebbe stato così rapido. Credevo che il Paese avrebbe preso un'altra direzione».
L'invasione dell'Ucraina l'ha sorpresa?
«Sì, e soprattutto non riesco a immaginare come possa andare a finire, perché Putin vuole l'Ucraina e l'Ucraina desidera l'indipendenza da molto tempo. Non sono un politologo, ma l'impressione che ho è che la relazione ambivalente della Russia con l'Europa, in profondità, non sia molto cambiata dai tempi di Pietro il Grande. L'apertura di Gorbaciov, a cui ho potuto assistere, fu solo una fase; durò qualche anno, poi si cominciò a tornare indietro. Forse i russi si sentirono traditi o sentirono di aver tradito se stessi. Ricordo che andai a vedere il mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa; mentre camminavo intorno al feretro, c'era una signora che parlava a voce alta e ripeteva la stessa frase. Sa cosa diceva? "Lenin, perdonaci, perché ti abbiamo deluso"».