Massimiliano, si chiude con te questo tentativo di raccontare il comico. Come e perché lo pratichi?
Tu, quindi, se mi fai questa domanda, pensi che io usi la comicità nella mia scrittura? Te lo chiedo perché io non penso che ciò che scrivo nei miei romanzi sia comico. I miei personaggi sono degli infelici, dei disadattati, e questa loro condizione non credo faccia ridere, sinceramente. Non penso, come dice Beckett, che «Non c’è niente di più comico dell’infelicità». L’infelicità e l’angoscia di vivere sono cose terribilmente serie e non strappano risate, secondo me. Kafka, anche se Foster Wallace sosteneva il contrario, non fa ridere. Emmanuel Bove non fa ridere. Celine non fa ridere. Tantomeno io faccio ridere. Nel mio romanzetto che citi, Il secondo libro, c’è una scena in cui il protagonista e il suo amico Giovanni, più asociale di lui, stanno cenando con minestra di cipolline e frittatina di asparagi selvatici che fanno schifo a tutt’e due e non si sa perché l’abbiano cucinate (forse per irritarsi l’un l’altro). Poi il protagonista, alla fine del pasto si alza dalla sedia, prende la rincorsa e si butta dalla finestra, solo che Giovanni abita al pianterreno quindi si sloga soltanto una caviglia. Ecco, io non ho scritto questa scena per creare un effetto comico, ma perché è successa davvero. Come sono successe tutte le cose descritte in quel romanzo (che è una specie di diario), che io non vedo come comiche ma penose.
Una prospettiva interessante. Il comico ha tante forme, ce n’è una che preferisci?
In realtà non mi fa ridere niente a me. E nessuno. Neanche nella vita di tutti i giorni c’è qualcuno, amico o estraneo, che mi diverta. Io stesso non credo di essere divertente, parlo piano come un indio e non si capisce quello che dico. Forse Cesare Pavese mi avrebbe fatto ridere se l’avessi conosciuto, non so perché, è una mia stramba convinzione. Ah, una cosa che mi fa ridere in letteratura c’è in effetti, e sono i diari di Tolstoj. Certo, non li ho letti tutti, sono 90 volumi. Ma quello che ho letto mi è sembrato davvero spassoso. Mi ha fatto ridere il fatto che quasi ogni sera insultava pesantemente Turgenev sui suoi taccuini segreti e poi prima di partire per Ginevra, nel momento di salutarlo, iniziava a piangere come un bambino davanti al suo amico scrittore. Ho poi trovato quasi comica la sua ossessione matrimoniale, a trent’anni voleva sposarle tutte, il vecchio Lev. Ho sogghignato come uno scemo quando annota sul suo diario che ha visto una coppia di suini giapponesi, e sente che per lui non ci potrà essere felicità nella vita finché non avrà importato questi maiali. Non lo dice in modo autoironico, lui ci crede davvero. Oltre a Tolstoj, ora che mi viene in mente, mi facevano ridere pure Fruttero e Lucentini, non i libri, ma il programma che conducevano. Si intitolava L’arte di non leggere, andava in onda ventisette o ventotto anni fa. Ricordo che non trovavano mai, nelle pile dei libri, il romanzo del giorno di cui dovevano parlare. Sarò malato, ma questa cosa mi divertiva e mi allietava la serata. Forse, l’unica forma di comicità che un po’ mi piace è quella involontaria. Questo per rispondere alla tua domanda.
Una comicità involontaria come quella di questa intervista. Continuiamo così e facciamoci del male. Per chiudere chiedo anche a te: e se ti svegliassi curatore di una collana umoristica, quale titolo le daresti?
Non saprei, ma pensandoci, dopo tutto quello che ho detto sull’arte della comicità, forse la chiamerei Far ridere i polli.