In Storia della mia faccia Ruth Ozeki prende le mosse da un koan buddhista letto da bambina: «Che aspetto aveva la tua faccia prima che nascessero i tuoi genitori?». La faccia ci precede, è anteriore alla nostra esistenza, o forse, nel suo essere unica, c'è sempre stata e sempre ci sarà, dunque la faccia è naturalmente ambigua, è qui ed è altrove, è l'oggetto - nonché il soggetto - di un'esperienza sensoriale, ed è sempre un fantasma. Soprattutto, il mistero di ogni volto è il tempo. Nel corso delle tre ore dedicate all'indagine della sua faccia, Ozeki è coinvolta, è paziente, così come è disponibile all'impazienza e perfino all'insofferenza. Sente il tempo passare. È nel tempo ed è al cospetto del tempo. Perché quel labirinto composto dagli occhi, dal naso, dalla bocca, è tempo incarnato (il titolo originale del memoir di Ozeki è proprio Timecode of a Face ). Le facce sono spazi solo all'apparenza circoscritti nei quali è possibile viaggiare muovendosi dalle palpebre alle labbra, da un neo a una piccola cicatrice sulla guancia - e leggendo si scorge, come una filigrana, il Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre, la parodia giocosa del Grand Tour dove al posto dell'Europa c'è un unico piccolo ambiente nel quale si sta scontando una quarantena punitiva.
Un vincolo, questo, che è precondizione di un particolare atteggiamento dello sguardo. Davanti alla curiosità e alla cura con cui l'autrice americana-canadese osserva ciò che è minuto , viene in mente quell'altra meditazione di matrice buddhista che è Piccolo Karma di Carlo Coccioli, un diario del minuscolo, del breve, del fugace, dunque più esattamente un minutario . E un minuto dopo l'altro, mentre lo sguardo di Ozeki percorre i segni del volto riflesso nello specchio come il popolo di Lilliput quello di Lemuel Gulliver, l'autrice - che nel 2010 è stata ordinata sacerdotessa buddhista - deduce, intuisce, immagina, ricorda: dopo una nevicata, da piccola, le facce disegnate nel bianco con un bastoncino, quando a segnare la differenza tra americani e giapponesi - cruciale, considerato che Ozeki è nata da padre americano e madre giapponese - al posto dei tradizionali cerchietti si tracciavano due trattini obliqui; negli anni Sessanta, e poi anche in seguito, il rapporto con il proprio viso meticcio, dunque indecifrabile, dunque inclassificabile: Che cosa sei? è la domanda ricorrente, una domanda che la contemplazione del proprio volto durante l'esperimento non fa che rinnovare. Più brutale di Chi sei? o di Chi sono? , ma paradossalmente più esatta. Perché lo studio della propria faccia non conduce a una certezza - a un'identificazione - bensì a riconoscere che ciò che abbiamo davanti a noi è una lacuna. Un mistero. Un'ipotesi. Il segreto. «La mia faccia sono e non sono io», scrive Ozeki (diversamente dal selfie, che incessantemente dice io , l'autoritratto in forma di frasi di Ozeki è il luogo in cui io dubita di sé, vacilla, tende a svanire). Continuando teneramente caparbia a osservarsi, Ozeki scrive: la mia faccia «ha molte persone dentro. I miei genitori, i miei nonni e i loro nonni, indietro nel tempo e per innumerevoli generazioni fino ai miei primi antenati: tutte quelle iterazioni sono qui davanti a me, insieme a tutte le persone che mi hanno mai guardata».