«Kae Tempest nota come la parola “connessione” in questi ultimi due anni abbia ristretto la sua sfera di significato al mondo virtuale: ci si “connette” per lavorare o chiacchierare su zoom, magari per seguire un concerto. Ma connessione è tutt'altro: un misterioso incanto e incontro che amplifica il senso delle parole e si tramuta in rito. È un'esperienza prettamente fisica: si sente, non si spiega. E ci avvicina agli altri, ci lega a loro, chiunque siano, proprio perché i nostri corpi respirano la stessa aria e sono impegnati a condividere uno stesso momento, a farsi attraversare dalla stessa musica.In questi anni abbiamo creduto di poter fare a meno del corpo, ma il rito e la magia passano necessariamente attraverso l'esserci: è da lì, racconta Tempest, che arriva quell'energia che ci sveglia dal torpore (”numbness”) dell'esistenza quotidiana.
Il lockdown ce ne ha fatto riscoprire l'importanza, ma già da prima stava succedendo qualcosa. Infatti da anni si diceva che la poesia era morta e non la leggeva più nessuno, quando in realtà si stava solo trasferendo dalla carta stampata ai palchi di scantinati e bar, a volte di teatri: si è riscoperta la poesia dal vivo, detta, sussurrata o gridata. Non bastano più le parole, ci vuole il corpo.
Gli incontri di Slam Poetry sono sempre più diffusi e partecipati e il livello è spesso molto alto. Non sempre: il bello è che c'è di tutto. La poesia torna a richiedere quel contatto diretto e concreto col pubblico che richiedeva ai tempi della lirica greca. Proprio Kae Tempest, con la sua poesia-rap, musicata ripetuta e cadenzata come quella di un aedo, è forse fra i capostipiti di questo ritorno della poesia dal vivo».