Mi sono sempre piaciuti i racconti di esperimenti, la poltrona piazzata in prima fila e il sottile brivido di diventare testimoni di un rovinoso fallimento. Storia della mia faccia di Ruth Ozeki è il racconto di un esperimento, a prima vista piuttosto bizzarro: mettersi davanti a uno specchio, costringersi a guardare la propria faccia per tre ore e prendere appunti sui pensieri che, nel frattempo, attraversano la mente. Insensato, forse. Di sicuro meditativo, e questo non stupisce perché Ozeki è anche una monaca zen che ogni giorno sta seduta immobile e pratica. L'idea le era venuta leggendo di una professoressa che aveva assegnato ai propri studenti il compito di osservare per tre ore un'opera d'arte ed esercitare la cosiddetta «attenzione immersiva». Così un giorno, questa scrittrice metà giapponese metà americana (ma «la metà di cosa? Quale metà era quale, e come ero divisa?», scrive) sistema lo specchio sull'altare buddista, fa partire il time code e ciò a cui ci permette di assistere è esattamente quello, un'immersione. Ma in che cosa, esattamente? Innanzi tutto, nel tempo. Il rapporto con la nostra immagine muta: da ragazze davanti alla nostra immagine riflessa resteremmo, e in effetti restiamo, per ore, a esercitare quel vizio, ugualmente delizioso e doloroso, che è la vanità. Ma più invecchiamo, più la parte di dolore prevale, ed è tutto un toccare, pizzicare, stirare, tirare in su, e poi le borse, le occhiaie, le rughe, le zampe delle galline e, quindi, il dilemma morale della chirurgia estetica, e un inquietante senso di estraneità verso noi stesse a invaderci. Non stupisce che, passata una certa soglia, il tempo di guardarci allo specchio non riusciamo proprio a trovarlo più. Ma non è tutto. Perché Ozeki-palombara si spinge ancora più giù, giù fino al «sé», l'insondabile. Maestra nella materia, ci spiega che negli insegnamenti zen i tre segni dell'esistenza sono l'impermanenza, il non sé e la sofferenza, e che sono legati indissolubilmente: se non ci piace l'impermanenza, e da qui la sofferenza, è perché desideriamo disperatamente «essere» qualcuno, ma qualcuno di fisso, il famoso centro di gravità permanente che, dai 5 anni in su, è più che altro un bellissimo miraggio. I libri più belli sono quelli dove trovi quello che non stavi cercando, una regola che vale anche per i luoghi (e i libri sono luoghi a tutti gli effetti). Nell'era dei selfie, scattati, pubblicati e all'istante dimenticati, fermarsi a guardare davvero è qualcosa che ha dello sconveniente, una quasi-trasgressione. Ozeki osa, la fa e la scrive, e difficilmente potremmo chiedere qualcosa di più a una scrittrice o uno scrittore. Se è vero, come dice Ozeki, che «rendere strane le cose familiari è il lavoro dell'artista», è vero anche l'inverso: chi fa arte la fa, anche, per renderci familiari le cose che, invece, credevamo solo un parto della nostra strana mente. Per quanto mi riguarda, esperimento riuscito.