“La cartolina” è un libro complesso e affascinante. Una splendida lettura che coinvolge fin da subito perché racchiude in sé molti rilevanti elementi, narrativi e umani: è un romanzo biografico ma anche saga familiare, è una sorta di giallo con tanto di indagine correlata, ma anche un testo d’interesse storico, un memoir ma anche un’analisi intima di cosa voglia dire, oggi come un tempo, essere ebrei. Il peso del vissuto, qui, porta con sé immani sofferenze e il baratro di perdite insanabili, lasciando in sospeso domande che, a distanza di un secolo, cercano voce e risposte. Ci sono ricordi da recuperare, reminiscenze da ricostruire, persone da riportare in vita e l’onestà intellettuale e sentimentale di restituire al passato la dignità e la forza che merita. Il ruolo di chi, come la Berest, sceglie di trasmettere una memoria è essenziale: un lavoro basato sulla consapevolezza di voler scrivere e raccontare per capire anche se stessi e non dimenticare.
Tutto inizia da una cartolina, la cartolina del titolo, s’intende. Si tratta di una cartolina anonima giunta, nel 2003, a casa di Lélia, la madre di Anne Berest. Contiene solo quattro nomi: Ephraïm, Emma, Noémie, Jacques. “Erano i nomi dei suoi due nonni materni, della zia e dello zio. Tutti e quattro deportati prima che lei nascesse. Tutti e quattro morti ad Auschwitz nel 1942. E sessantun anni dopo, il 6 gennaio 2003, risorgevano dalla nostra cassetta delle lettere“. Una cartolina con la foto dell’Opéra Garnier e il timbro dell’ufficio postale del Louvre. Piccoli indizi del tutto inutili. Nessuno in famiglia riesce a capire: perché quei quattro nomi? Perché dopo tanti anni? Perché a Lélia? Risposte logiche non se ne trovano e la cartolina, piombata improvvisamente nella vita della famiglia Berest-Picabia, viene semplicemente riposta in un cassetto, tra le tante scartoffie della madre di Anne.
La vera “scintilla” che ha indotto l’autrice a voler finalmente riaprire i conti con il passato della sua famiglia è un’altra, una frase che la figlia di Anne, la piccola Clara, riferisce alla nonna: «È che a scuola gli ebrei non sono molto amati». Lélia spiega ad Anne che la bambina si trova a fare i conti col suo essere ebrea e che sarebbe il caso di affrontare l’argomento. Ma Anne si sente inadeguata, non sa cosa voglia dire realmente essere ebrei, non sa come parlarne a sua figlia che è solo una bambina la quale, di nuovo, per una sorta di millenaria maledizione, si è trovata al cospetto dell’intolleranza antisemita. “Allora mi è apparsa un’immagine. Nettissima. Una fotografia dell’Opéra Garnier scattata al calar del sole. È stato come un flash. Da quel momento mi sono lanciata nelle indagini. Volevo scoprire a tutti i costi chi avesse scritto la cartolina anonima che mia madre aveva ricevuto sedici anni prima“. A distanza di tanti anni, quindi, Anne decide che è giunto il momento di trovare un senso, di tornare al passato inoltrandosi negli angusti meandri delle memorie di famiglia.
Ephraïm, Emma, Noémie, Jacques e Myriam, la nonna di Anne, l’unica sopravvissuta allo sterminio, diventano personaggi, figure vivide e pulsanti. Conosciamo le loro origini russe, le loro vicissitudini personali, gli amori, le fughe, le speranze, la paura. Sono ebrei i Rabinovich e, come tanti altri ebrei, devono fare i conti con l’urgenza di sopravvivere in un modo o nell’altro. Le loro vite scorrono sotto i nostri occhi, tra documenti recuperati negli archivi e lettere sopravvissute alla guerra. La Berest è bravissima a tenere in equilibrio ogni dettaglio, a renderci partecipi di una narrazione che, evidentemente, la coinvolge dal profondo. Le emozioni suscitate dal racconto di esistenze che appaiono travolte dal tempo e dall’oblio sono molto intense e trasportano, inevitabilmente, anche chi legge. L’indagine è lunga, intricata, faticosa ma porterà i suoi frutti.
L’esplorazione di Anne Berest, però, va oltre la storia di famiglia. “La cartolina” diventa anche una ricerca iniziatica su cosa significhi oggi “essere ebreo” per un ebreo che, come la Berest, sa di esserlo senza però conoscere le ragioni autentiche della sua identità ebraica. La spiegazione, a un certo punto, arriva: “non so cosa significhi “essere davvero ebrei” o “non esserlo veramente”, posso solo dirti che sono figlia di sopravvissuti, una che non conosce i gesti del Seder ma la cui famiglia è morta nelle camere a gas, una che ha gli stessi incubi della madre e cerca il proprio posto tra i vivi, una il cui corpo è la tomba di quelli che non hanno avuto sepoltura […] Nelle mie cellule è impresso il ricordo di un’esperienza di pericolo così violenta che certe volte ho la sensazione di averla davvero vissuta o di doverla rivivere. La morte mi sembra sempre imminente. Ho l’impressione di essere una preda. Spesso mi sento sottomessa a una forma di annientamento. Cerco nei libri la storia che non mi hanno raccontato […] Per quasi quarant’anni ho provato a tracciare un disegno che mi rassomigliasse senza riuscirci, ma oggi sono in grado di collegare tutti i punti tra loro per veder apparire, in mezzo alla costellazione di frammenti sparpagliati sulla pagina, una figura in cui finalmente mi riconosco: sono figlia e nipote di sopravvissuti“.