(...) Ambientato nel 1991, Heaven è narrato in prima persona da un ragazzo quattordicenne, di cui non viene mai rivelato il nome. Affetto da strabismo, questo studente delle medie è vittima di bullismo da parte dei suoi compagni che, capeggiati dall’autoritario – e studente di talento – Ninomiya, lo dileggiano chiamandolo “occhi storti” (ronpari in giapponese, crasi di rondon, Londra, e pari, Parigi, riferendosi agli occhi del ragazzo che guarderebbero in due direzioni opposte, verso le due capitali appunto). Il bullismo nei suoi confronti non si limita alle offese verbali e a qualche spintone, ma è caratterizzato da atti di violenza anche estrema, come nell’emblematico episodio in cui i ragazzi infilano un pallone sulla testa del narratore e iniziano a giocare a calcio “umano” usandolo come palla.
Uniche interruzioni nella monotona vita del ragazzo, che scorre fra violenze all’ordine del giorno, sono gli scambi di biglietti, iniziati quasi per caso, con la compagna di classe Kojima, anche lei perseguitata dalle compagne a causa dell’aspetto sporco e dimesso. Attraverso questi dialoghi epistolari, i due ragazzi condividono le loro sofferenze e diventano amici – loro che nella loro vita di amici non ne avevano mai avuti, non avendo niente in comune con i propri coetanei. A questo scambio si aggiungono sporadici incontri di persona: una volta, durante le vacanze estive, i due visitano un museo d’arte, dove Kojima mostra al ragazzo il suo quadro preferito, una scena di due fidanzati che mangiano; per lei, il quadro li ritrae in seguito a una grande sofferenza, che però i due «sono riusciti a superar[e] insieme, restando uniti, e per questo vivono nella felicità più grande che esista» (p. 63). Per Kojima, la stanza in cui si trovano i due innamorati, benché spoglia, simboleggia il loro percorso emotivo, dal dolore all’armonia e al luogo tranquillo di pace che hanno raggiunto insieme. Andando oltre le apparenze, si capisce che quello è il paradiso – Heaven –, il nome che lei stessa dà al quadro.
Questa concezione di Heaven, del luogo di “pace” a cui si può addivenire passando per la sofferenza, è una riflessione cruciale nel romanzo. Nel susseguirsi di eventi, di violenze e di messaggi scambiati, Heaven intesse una particolare interpretazione del bullismo giovanile e della resistenza a esso, incarnata da Kojima. La ragazza vede tutto ciò che le accade come parte necessaria di un percorso esistenziale, al termine del quale chi lo merita avrà la giusta retribuzione. Questo merito lo si guadagna anche attraverso la sofferenza della sopportazione dei difetti altrui. Per Kojima, infatti, gli altri non la tormentano perché spinti da un motivo preciso, e nemmeno perché siano intrinsecamente cattivi, bensì per mancanza d’immaginazione: «Non pensano a niente. Imitano, prendono il testimone da qualcun altro in modo del tutto automatico, e applicano gli stessi schemi senza riflettere» (p. 96). A tutto ciò, allora, viene conferito del senso proprio perché la sopportazione silenziosa ma costante delle violenze, per quanto insensate, condurrà alla terra promessa, alla ricompensa conferita da una divinità onnisciente che tutto osserva: «È come se fosse una grande prova: dopo aver sopportato tutto, alla fine, ci aspettano un luogo o un evento speciali, qualcosa in cui non ci saremmo mai imbattuti se non avessimo sopportato tutto e resistito fino alla fine» (p. 97).
A questa visione teleologica di una resistenza silenziosa, un’accettazione passiva solo all’apparenza, si oppone un’altra visione importante, che proviene da uno dei bulli stessi, chiamato Momose. Quando il narratore riesce a chiedergli il motivo della sua aggressività, Momose risponde che in realtà non esiste una spiegazione razionale per tutto: tutto è casuale, determinato dalle circostanze. Non esiste una morale assoluta, così come non esiste un inferno che attende chi non ha vissuto secondo un ideale solido di giustizia. Ogni individuo crea la propria morale: «Fondamentalmente ognuno vive in un suo proprio mondo e la pensa in modo diverso […] mondi diversi e distanti che si incrociano solo per caso. Poi, una volta che il contatto è avvenuto, è ovvio che ciascuno cerca di attirare gli altri entro la propria orbita, nel proprio sistema di valori, così da aumentare la massa e il peso specifico e farsi notare in questo nostro piccolo universo» (p. 172-73). Per questo, le violenze ai danni del ragazzo non sono razionalmente determinate dal suo strabismo, ma da uno scontro di circostanze, di possibilità e istinti da sfogare momentaneamente; i bulli lo bersagliano perché ne hanno voglia, perché possono farlo. (...)