Ci sono delle parole e delle emozioni che non si riescono a dire o che diciamo sempre nello stesso modo e invece quanto vorremmo dirle diversamente. Allora pensiamo che sia un problema della nostra lingua materna che conteneva tutte le possibilità, ma finisce sempre per strutturarle e limitarle. Allora ci illudiamo che cambiando paese ed imparando una nuova lingua quelle parole finalmente potranno dirsi. E a volte con quella nuova lingua, dopo lo spaesamento iniziale, abbiamo l’impressione che possiamo raccontarci davvero in modo inedito, con una specie di ebbrezza e quel desiderio così umano e a tratti ottuso di ricominciare tutto daccapo. Alcuni arrivano proprio a cancellarla quella lingua madre, non solo a metterla a tacere nell’angolino della seconda scelta. Alcuni (non gli immigrati italiani di una vota, né quelli di oggi, che dovevano e devono solo integrarsi a tutti i costi) arrivano a rivolgersi ai loro figli in una lingua neutra, altra, francese (la erre moscia è sempre molto chic) o inglese (bisogna cominciare da subito). Con fluidità (parola oramai passpartout) e una sottile vena di onnipotenza, credono di essere i protagonisti di una nuova frontiera linguistica molto posh, bilinguismo, trilinguismo, e non vedono che è sempre una questione di grembo materno. Ma poi, piano piano, arriva (forse non a tutti) la nostalgia della lingua materna, una specie di stanchezza e tanta confusione. E allora, dopo aver fatto il giro, arrivi alla conclusione che quelle parole che non potevi dire nella “tua” lingua non riuscirai a dirle in nessun’altra lingua, che prima o poi bisogna fare i conti anche con quelle parole che non venivano fuori o venivano fuori malamente. E per fare i conti bisogna tornare lì da dove vieni, da dove sei partita. “Perché c’è da tornare indietro”, scrive Caterina Venturini. (...)