Ho sempre amato le tracce nascoste dei dischi.
Dette anche tracce fantasma.
Essere colta di sorpresa da una nuova canzone quando pensavo che l'album fosse già finito.
La canzone fantasma, non annunciata nel retro del disco, a volte è quasi più bella delle altre, oppure non c'entra niente, o nel migliore dei casi fa pensare a uno sconfinamento che mette in una nuova luce le altre canzoni.
Per chi scrive un libro è diverso. Almeno per me. Per tutto il tempo della composizione è come se avessi davanti un'impastatrice in cui lanciare una serie di materiali che da uno stato semiliquido di umori, di idee appena accennate oppure altre già molto precise, acquisterà man mano una sua consistenza, una compattezza. Fino agli ultimi giorni prima che il libro vada in stampa è ancora possibile tuffarsi in quell'impasto e sporcarsi di nuovo le mani per aggiungere o togliere via qualcosa che all'improvviso non mi convince più: com'è stato possibile, penso allora con vergogna, inserire proprio quella frase, che fortuna poterla togliere prima che altri la leggano. Eppure quella fanghiglia dell'inizio sta prendendo sempre di più una forma, e una forma è tale perché include il dentro e esclude il fuori. Finché non arriva il giorno in cui proverò a gettare con la solita balda noncuranza un altro materiale appena trovato per strada, una conversazione, un nuovo personaggio persino, ma quella macchina da me creata me lo risputerà indietro. La materia formata rigetterà la materia ancora informe.
Basta.
È finita.
Il libro è fatto.
Non mi arrenderò subito: aspetta, dirò a me stessa, forse ho sbagliato il punto di lancio, forse quella frase nuova, quel concetto ancora indistinto non posso inserirlo a pagina 90 perché va messo verso la fine, forse è solo un problema di luoghi: la macchina però lo risputa indietro. Allora forse va messo all'inizio: la macchina sputa ancora. Non c'è più spazio tra una frase e l'altra. Si sono ormai completamente saldate tra loro. Abbattuta, stupita, ma anche sollevata, mi fermo, è ora di uscire dalla macchina. La materia è durissima, è ormai un escremento fatto e finito che non riconosce altro da sé.
Poi mi chiama mio fratello e mi racconta di essere andato a pranzo dai nostri genitori e di aver scoperto una cosa.
(...)