Intervista alla scrittrice francese che pubblica «La cartolina» per e/o. Un romanzo che unisce alla ricostruzione di un vasto affresco storico il passo palpitante del memoir e un profondo esame interiore quanto al proprio rapporto con l’identità ebraica. Oggi alla kermesse di Torino il romanzo che ricostruisce la storia dei Rabinovitch dalla Russia ad Auschwitz. «Simone Veil diceva che non esiste "un dovere di memoria, bensì un dovere di trasmissione". E credo che attraverso il racconto di quanto accaduto ciò spetti ora alla mia generazione»
Una storia che arriva da un passato tragico con il suo carico di dolore e sofferenza, ma portando con sé anche una lunga lista di quesiti cui nessuno ha mai cercato di offrire una risposta. Quando il ricordo dei nonni e degli zii morti ad Auschwitz riappare improvvisamente attraverso una cartolina anonima nella vita della madre della scrittrice parigina Anne Berest nessuno sembra farci troppo caso e la missiva finisce rapidamente in un cassetto, «archiviata» in modo sbrigativo alla stregua di un scherzo sinistro. Eppure, sarà questo il primo segnale dal quale molti anni più tardi Berest muoverà per indagare attraverso un romanzo che unisce alla ricostruzione di un vasto affresco storico il passo palpitante del memoir e un profondo esame interiore quanto al proprio rapporto con l’identità ebraica, la vita dei suoi parenti fuggiti dalla Russia e giunti dopo mille peripezie in Francia, da dove sarebbero stati deportati ad Auschwitz. Autrice di una mezza dozzina di romanzi, di alcune opere teatrali e delle sceneggiature di due serie tv, Paris Etc. e Mytho, Anne Berest ha vinto con La cartolina (e/o, pp. 458, euro 19, traduzione di Alberto Bracci Testasecca) diversi premi oltralpe e si è appena aggiudicata la prima edizione del Choix Goncourt degli Stati Uniti. Ospite del Salone di Torino, la scrittrice presenta questa mattina alle 10.45 il suo libro con Fabio Gambaro presso la Sala Internazionale.
Lei racconta la storia della sua famiglia attraverso gli ultimi cento anni, dalla Russia zarista ad Auschwitz. Da cosa ha preso spunto questa ricerca?
Un giorno mia figlia, che frequenta una piccola scuola pubblica del quartiere, rincasando ha detto a mia madre: «Nonna, lo sai che a scuola non amano molto gli ebrei». Quando l’ho saputo, sono rimasta sconvolta, mi sono bloccata senza riuscire a chiedere alla bambina cosa fosse successo. In realtà, cercando di elaborare tale stato d’animo, mi sono resa conto che non trovavo le parole per affrontare quella situazione perché a casa mia se ne era parlato sempre poco o nulla, non avevamo mai davvero affrontato il passato né che cosa potesse significare essere ebrei.
Quindici anni prima però era arrivata una cartolina anonima con sul retro i nomi dei nonni materni di sua madre, di una zia e di uno zio, Ephraim, Emma, Noémie e Jacques, tutti deportati ed uccisi ad Auschwitz…
Si, ma fino a quel momento, a parte lo stupore iniziale, non mi ero chiesta né chi potesse aver inviato la cartolina, né avevo cercato di saperne di più su quelle persone. E lo stesso aveva fatto mia madre. Quindici anni più tardi però la frase di mia figlia ha fatto scattare qualcosa e sono tornata a guardare quella cartolina con occhi diversi. Quei nomi a cui non sapevo dare una volto sono diventati una sorta di ossessione. Sentivo che dovevo saperne di più, che forse in quelle vite negate dalla Shoah, ma che prima di Auschwitz avevano amato, viaggiato, sognato c’era almeno in parte una risposta anche a ciò che implicitamente mi stavano chiedendo le parole di mia figlia. Sentivo che dovevo sia a lei che a me stessa ben più che il silenzio che mi bloccava. E il fatto che il nostro passato ci apparisse ancor più misterioso del futuro non poteva essere in alcun modo un punto di partenza. Dovevo sapere e non potevo che mettermi ad indagare nel passato della mia famiglia per poterlo fare.