Allievo di pochi, maestro di molti, Goffredo Fofi ha attraversato oltre sessant'anni di storia culturale e politica italiana, dagli anni '50 quando lavorò al suo primo, e in qualche modo già definitivo libro della vita, il saggio L'immigrazione meridionale a Torino , già pronto per Einaudi, rifiutato e poi uscito da Feltrinelli nel 1964 fino a oggi, instancabile nel pubblicare articoli, curare collane editoriali, firmare prefazioni, cioè «fare» attraverso lo «scrivere». In mezzo, il '68 studentesco, il '69 operaio, l'inquieto '77, gli anni del terrorismo, poi dell'edonismo, che per lui forse fu anche peggio, poi del berlusconismo, che ha combattuto senza cedere di un passo, poi i Duemila... Ed eccolo ancora qui: impegnato, sia nel senso che è attivissimo su mille fronti, sia nel senso di engagé . La cultura serve soltanto se migliora la realtà sociale. Un orizzonte - da cui si attende di vedere spuntate un'alba nuova - fatto di pacifismo, quartieri popolari, migranti, minoranze, chiunque sia Straniero . Oggi Goffredo Fofi - saggista, attivista, critico cinematografico e letterario, uomo di editoria e giornalista che ha fondato, diretto, animato decine di riviste: Quaderni piacentini , La Terra vista dalla Luna , Ombre rosse , Linea d'ombra , Dove sta Zazà ... - ha 85 anni, la quasi totalità dei quali passati accanto ai maggiori intellettuali italiani dal dopoguerra in avanti. Il momento giusto per guardare indietro. E così ecco il suo nuovo libro, Cari agli dèi (edizioni e/o), in cui l'autore traccia i ritratti-ricordi delle persone che, fra quanti lo hanno segnato di più, se ne sono andate troppo presto, o prima di aver dato tutto ciò che avrebbero potuto. Addii anzitempo. Fu Menandro a dire «muore giovane colui che gli dèi amano». Fra autobiografia intellettuale, diario di una vita di relazioni letterarie e Spoon River politico-umanitaria, il libro di Fofi - culturalmente onnivoro, filosoficamente anarchico e politicamente intollerante, da sinistra, alla sinistra ortodossa - è un meraviglioso excursus lungo un'Italia militante, colta e impegnata che, al netto di un eccesso di ideologia, esalta, per reazione, la mediocrità e il conformismo dell' intellighenzia italiana di oggi. E fra scudisciate al comunismo osservante, ufficiale e borghese (ce n'è anche per i «ruffiani einaudiani»), riserve sui vari leader carismatici del movimento studentesco e dei gruppi politici in cui si divise (soprattutto Lotta continua), qualche delusione (il comunista doc Gianni Rodari), e diverse perplessità sul culturame attuale (con «quegli strambi festival dove la cultura si fa chiacchiera e passerella»), Fofi ha facile gioco a illuminare alcune figure che tutti dovremmo ricordare, da lui tutte frequentate e amate. Come il sindaco-poeta Rocco Scotellaro, limpido esempio di intellettuale gramscianamente inteso, morto trentenne nel '78. O Raniero Panzieri (1921-64), sociologo e interprete di una nuova sinistra non stalinista, uno che sapeva (come Fofi) che il mondo non lo si capisce coi libri, o solo coi libri, come erano invece sicuri i «professorini e professoroni di marxismo». O Peppino Impastato, ucciso - e anche per questo dimenticato - lo stesso giorno di Aldo Moro, 9 maggio del '78. O le grandi romanziere «meridionali» Mariateresa Di Lascia (1954-94) e Fabrizia Ramondino. O Grazia Cherchi (1937-95), alla quale Fofi era legatissimo, ma che non accettò che lui scrivesse, nel '95, che la sinistra era ormai morta. O Severino Cesari (del quale Fofi apprezza tutte le stagioni della sua vita, un po' meno quella di Stile Libero). O Alessandro Leogrande (1977-2017) - scrittore, giornalista, tarantino e talent scout eccezionale, come lo è sempre stato Fofi - fra i migliori giovani italiani della sua generazione. Tutti, uomini e donne, nomi di fama o meno, accomunati da pochi tratti: essere alieni dal narcisismo mediatico, inseguire la moralità della politica e credere nel valore essenziale dell'amicizia. «Perché senza amici, la vita non è vita».