Restare senza parola o vivere in terza persona? Impossibile la prima cosa, inquietante l’altra. Nutrirsi di una sinistra estraneità da sé stessi senza la memoria di ciò che abbiamo fatto, di ciò che è accaduto, senza la memoria di noi?
Qualcosa spinge in direzione opposta una donna tedesca della DDR, classe 1929, che dopo quarant’anni ritorna nella propria città natale, un tempo nel Terzo Reich e ora in Polonia, abbandonata alla fine della guerra di fronte all’avanzata dell’Armata rossa e mai più rivista. Il viaggio più volte rimandato nei luoghi sommersi dell’infanzia incalza la protagonista di questo romanzo in un tentativo di verifica della memoria. La quale, inerme di fronte all’assalto dei dettagli che proliferano negli occhi e nella mente, fornisce stupefacenti minuzie sui suoi anni giovanili vissuti all’ombra della croce uncinata. Ne risulta una fitta trama narrativa in cui, accanto a quello realmente intrapreso in Polonia, si intrecciano due viaggi figurati: il primo a ritroso nel tempo, nei ricordi di colei che narra i propri anni hitleriani, il secondo nel presente della protagonista, oramai una scrittrice nota, riformata dall’esperienza socialista, mentre redige il proprio manoscritto autobiografico negli anni Settanta. Passato e presente dunque si fronteggiano, e la guerra e la coercizione diventano il riflesso della funesta tendenza della storia a ripetersi. Lo dimostrano i continui rimandi di Wolf al presente della scrittura, dal conflitto israelo-palestinese all’aggressione Usa in Vietnam, dalle esecuzioni del golpe militare in Cile ai sogni inquietanti in cui uomini senza volto irrompono costringendola a scrivere cose gradite al partito. Episodi che, certo, non relativizzano e indeboliscono il passato tedesco, ma stigmatizzano un unicum di violenza le cui propaggini toccano ancora l’oggi.
Trama d’infanzia viene pubblicato nel 1976 nella DDR e si configura subito, nonostante il Muro di Berlino, come “il romanzo tedesco” che parla alle due Germanie, un testo che permette a molti lettori di ritrovarsi nelle situazioni descritte e attuare un confronto individuale e un dialogo con i propri figli. Ma la Christa bambina – costretta, come tanti, a farsi nazista – appare talmente estranea, altro da sé, alla Christa adulta – oramai una delle voci più autorevoli della DDR – da scegliere per lei un altro nome: Nelly. Riflette la scrittrice:
«Perché è difficile ammettere che quella bambina – tre anni, indifesa, sola – è per te irraggiungibile. Non solo quarant’anni ti separano da lei; non solo ti è d’impedimento l’inattendibilità della tua memoria, che lavora isolando spezzoni e il cui compito è: dimenticare! Falsificare! La bambina è stata abbandonata anche da te. Innanzitutto dagli altri, certo. Poi però anche da quell’adulta che ne è sgusciata fuori, riuscendo a farle via via tutto ciò che gli adulti fanno ai bambini: se l’è lasciata alle spalle, l’ha spinta da parte, l’ha dimenticata, rimossa, ripudiata, rimodellata, falsificata, viziata e trascurata, se n’è vergognata e ne è andata fiera, l’ha amata in modo sbagliato, e in modo sbagliato l’ha odiata. Adesso, benché sia impossibile, vuole conoscerla».
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