(...) In Messico, un paese subito amatissimo, Serge ritrova una Russia esponenziale, la terra ubertosa, umida e assolata di cui si legge in Terremoti (San Juan Parangaricutiro), pubblicato dalle edizioni e/o nella bella versione di Sergio Atzeni. Nell'introduzione, Goffredo Fofi lo definisce un saggio-reportage rivolto alle attuali militanze che abbiano «al loro centro il rapporto con la natura».
Scritto tra il '43 e il '44 con autentica felicità e un virtuosismo da prosa d'arte, Terremoti dà conto dei circa 2000 temblores che ogni anno, a quanto pare, scuotono il Messico e dei riflessi sismici sulla vita quotidiana: al centro, quasi rappresentasse un nume tellurico, si erge un vulcano di recente sprigionatosi in un diluvio di ceneri e lapilli, castigo dei villaggi già abitati da indios che in tutto somigliano ai mugik dell'Unione Sovietica. Agente del Caos e dunque nemico del Cosmo, quel vulcano è evidentemente un'allegoria o, anzi, la traduzione della Storia in Natura per cui la violenza del conflitto sociale è simulata (e come tale dagli individui introiettata) nei modi del tremore sismico: «Il terremoto suscita un panico animale, diverso dal panico umano, perché non coinvolge la coscienza. Nell'anima si installa una grande sensazione di impotenza».
Ed è il senso di impotenza contro cui lo scrittore ha combattuto per tutta la vita negando la normalità o "naturalezza" dello sfruttamento capitalista così come il decorso ineluttabile della tirannide stalinista. Il suo testamento di umanista amava riassumerlo in tre semplici parole d'ordine: difesa dell'uomo, difesa della verità, difesa del pensiero critico. D'altronde, in clausola alle Memorie, aveva aggiunto che «l'ingranaggio totalitario funziona come una officina a cui un ingegnere, girando una manovella, abbia trasmesso la corrente». Voleva dire che non c'è nessuna fatalità nella storia degli uomini, ma c'è invece il perpetuo conflitto di cui gli esseri umani sono, consapevoli o no, i soli responsabili.