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Parlami di battaglie, di re e di elefanti di Mathias Enard

Autore: Felice Laudadio
Testata: Sololibri
Data: 6 settembre 2021
URL: https://www.sololibri.net/Parlami-di-battaglie-re-elefanti-Enard.html

Ha trentun anni nel 1506 Michelangelo Buonarroti da Firenze ed è uno scultore di fama. Del suo David si parla dovunque. L’artista si avvia a essere stimato il più grande del suo tempo, l’uomo è orgoglioso e di pessimo carattere. È un giovane talento della Fabbrica di San Pietro che ha rotto col papa — anche Giulio II è permaloso, oltre a essere un pessimo pagatore — il Michelangelo che sbarca a Costantinopoli, per una prestigiosa commessa dal Gran Turco sul Bosforo.

È il primattore di un bel romanzo, scritto da un Mathias Enard in forma smagliante, con una sintassi breve e ritmata, di grande efficacia. Col titolo che traduce fedelmente una citazione di Kipling, Parlami di battaglie, di re e di elefanti è apparso in Francia oltre dieci anni fa e solo da questa primavera è nelle nostre librerie fisiche e online, nella traduzione di Yasmina Melaouah, per iniziativa delle edizioni romane E/O.

Enard ha studiato storia dell’arte e anche persiano e arabo, che ha insegnato nell’Università autonoma di Barcellona, a latere dell’attività di traduttore e dell’ampia produzione narrativa. Apprezzabile la prosa secca ma elegante, che aiuta il lettore a divorare letteralmente le sue opere. Molto valido anche quando descrive con pochi tratti il carattere dei personaggi. Non si prendano però per oro colato i giudizi sull’architetto Bramante (un “imbecille”) e sul pittore Raffaello (un “presuntuoso”), perché rappresentano il parere soggettivo del Buonarroti, furibondo contro i rivali: “due nani che lusingano la smisurata superbia del pontefice della Rovere” e lo hanno screditato agli occhi del severo papa. Giulio II non ha voluto riceverlo. Lo ha fatto cacciare quando è andato per la quinta volta a sollecitare denaro per condurre i lavori della grande tomba di Sua Santità in progetto nell’enorme basilica in costruzione Oltretevere, nell’area del vecchio ager vaticanus. L’unico acconto è stato esaurito in fretta, per acquistare l’ottimo marmo che lo stesso artista è andato a procurarsi a Carrara.

Fremente di rabbia per l’affronto, Michelangelo è tornato a Firenze, sfuggendo alle guardie inviate dal papa a riportarlo indietro ed è in Toscana che due francescani gli recapitano un invito del sultano di Costantinopoli. Non ha detto subito sì, ha respinto per tre volte gli emissari, negando d’essere qualificato per la commessa di Bayazid, di natura non artistica ma ingegneristica: un ponte di oltre 900 piedi, da una sponda all’altra del Corno d’Oro. Vi si è cimentato anche Leonardo da Vinci, ma il suo progetto non è risultato gradito al sultano, gran costruttore della ex Bisanzio ora ottomana.

In realtà, attendeva notizie da Roma, sperando in un cenno del pontefice, ma Giulio II dev’essere troppo impegnato con la basilica e i preparativi di una nuova guerra. Lo ha lasciato a rigirarsi tra le mani la lettera del Turco, a letto, dove Michelangelo dorme seduto, con la schiena appoggiata a un cuscino perché teme la figura della morte, evocata dalla posizione distesa.

Una settimana e la scelta è fatta. Servire il sultano può essere una bella vendetta nei confronti di chi l’ha fatto cacciare come un pezzente e poi il compenso è altissimo, cinque volte più di quanto il papa gli abbia concesso per due anni di lavoro. Bayazid chiede appena un mese d’impegno, per progettare un collegamento gigantesco tra due fortezze. Un’opera titanica tra Pera e Stambul, ma lo spazio tra le mura e il mare è fin troppo esiguo. Il disegno di Leonardo è risultato monumentale, ma vuoto, senz’anima, privo di vita. Al sultano è sembrato francamente brutto.

Buonarroti è stordito da tutto il nuovo, splendido e diverso che vede intorno ed è sorpreso dalla tolleranza dei turchi verso i cristiani e i loro commerci. Non può ignorare però le file di derelitti, gli schiavi legati gli uni agli altri in attesa che un padrone stambuliota decida del loro destino. Tutto lo incuriosisce in una città popolosa e instancabile, in cui risalta passo dopo passo la maestria degli ottomani nel dominare la luce. È conquistato dalla varietà di animali esotici e cose mai viste e disorientato dall’ambiguità di certi musicanti nelle case dei nobili: donne abbigliate da giovanetti o giovanetti velati come le donne?

Assiste a un’esecuzione, lui che ha studiato anatomia negli obitori di Firenze e ha visto Savonarola sul rogo. La lama del boia lampeggia al sole, la testa del condannato cade al suolo. È rimasto stranamente docile, devono avergli somministrato dell’oppio, pensa l’artista (farà tesoro di quanto ha visto, dipingendolo in un pennacchio della Cappella Sistina). Vuole impegnarsi nel bozzetto del ponte, ma è distratto da tante altre cose da disegnare. È attratto dalla bellezza, scrive Enard, perché non è bello. La fronte molto alta, il naso rotto in una rissa in gioventù, le sopracciglia folte, le orecchie tropo larghe. Non cogliendo armonia nel suo volto, sembra cercarla in quello degli altri e riprodurla nei suoi lavori.

Porta a termine comunque la commessa. Quattro arcate corte fiancheggiano un arco centrale, la curva è tanto lieve da sembrare impercettibile. I solidi piloni hanno sporgenze triangolari che fendono le acque. Una maestosa passerella collega morbidamente le due sponde, sorretta da una forza invisibile. Il gran visir Ali Pasha è stupefatto: Bayazid sarà entusiasta. Michelangelo tornerà a Roma, lasciando alle spalle meraviglie e cuori infranti, di donne e di uomini.