A settantadue anni dalla sua scomparsa, la voce di Antonin Artaud continua a sconvolgerci e inquietarci, accecandoci d’illuminazioni oscure con la potenza alchemica di un sol niger. L’influenza della sua ricerca radicale sui limiti del linguaggio e sul recupero del valore sacro del teatro è stata determinante su figure straordinarie della cultura del Novecento, da Carmelo Bene a Demetrio Stratos, da Julian Beck a Jerzy Grotowski, fino agli esperimenti contemporanei di Antonio Rezza.
Non ci soffermeremo ora sulla sua tragica biografia, facilmente reperibile ovunque, e sulle cicatrici indelebili che ha lasciato sulla sua psiche lo stigma della follia (e i relativi cinquantuno coma da elettroschock subiti in nove anni di manicomio). Preferiamo, in questa circostanza, soffermarci su alcuni aspetti della sua opera, soprattutto dal punto di vista della teoria teatrale. Un’opera che ha avuto come stella polare, pur (e forse più che mai) nelle violente esplosioni blasfeme degli ultimi anni, il recupero del Sacro.
Ora, il volume Il Teatro e la Crudeltà pubblicato da edizioni e/o nella Piccola Biblioteca Morale, collana di pensiero radicale diretta da Goffredo Fofi, ci offre l’occasione di riflettere sulla ardente attualità delle profezie artaudiane. Un volume che raccoglie importanti contributi tratti da vari momenti della tormentata esistenza del pensatore francese, raccolti in diverse sezioni.
La prima parte (Manifesti, teorie) raccoglie il primo e il secondo Manifesto del Teatro Alfred Jarry, di cui Artaud fu fondatore in omaggio al creatore della Patafisica, il Manifesto per un Teatro Abortito (scritti tra il ’26 e il ’27), oltre ai brani più celebri del cruciale saggio Il Teatro e il suo Doppio, tra cui i due manifesti sul Teatro e la Crudeltà che donano il titolo alla raccolta (scritti tra il ’32 e il ’33).
In queste pagine, si incontrano affermazioni celebri: il teatro per Artaud è in decadenza perché «ha rotto con lo spirito profondo dell’anarchia che è alla base di tutta la poesia». Già nel ’26 proclamava: «Tutto ciò che appartiene all’illeggibilità e al fascino magnetico dei sogni, tutti quegli strati oscuri della coscienza che sono tutte le nostre preoccupazioni dell’animo, tutto ciò vogliamo vederlo irradiarsi e trionfare sulla scena…», parole in cui si coglie l’eco delle fiammeggianti riflessioni nietzscheane sul tragico.
Degno di nota è un dettaglio rivelatore, facilmente sottovalutabile: Artaud nel picco della sua rivolta cita un dotto esoterista come René Guenon e la sua critica all’impoverimento spirituale dell’Occidente, sancendo nella sua visione culturale il superamento dei concetti convenzionali di Tradizione e Rivoluzione. Nell’affrontare infatti il suo distacco dai Surrealisti, e «il loro inginocchiarsi davanti al Comunismo», egli spiega: «Una Rivoluzione che ha messo al primo posto delle sue preoccupazioni le necessità della produzione, e che di conseguenza si ostina a fare affidamento sulla meccanizzazione come un mezzo per facilitare la condizione degli operai, è secondo me una rivoluzione di castrati».
Di conseguenza, egli afferma che «la Rivoluzione più urgente da compiere è in una sorta di regressione nel tempo». Eppure, nel suo magnifico stile saettante, a metà tra il comizio di un rivoltoso e l’incantesimo di uno stregone, è proprio contro il culto sterile di una falsa tradizione che maggiormente si scaglia: «I capolavori del passato vanno bene per il passato, non per noi». Dunque, il movimento di regressione nel tempo proposto non è una mera reazione passatista, bensì un ritorno alle origini archetipiche di una sapienza interiore: «La massa, oggi come un tempo, è avida di mistero: non chiede altro che prendere coscienza delle leggi attraverso cui il destino si manifesta…».
Nelle pagine sulla Crudeltà inizia la battaglia di Artaud contro «la superstizione dei testi e della parola scritta», chiarendo come l’idea di un tale teatro non sia «rischiosa e puerile» ma abbia precisi riferimenti mistici (ad esempio, la trance indotta dalla danza dei Dervisci) e un chiaro intento spirituale: «Un teatro che, abbandonando la psicologia, racconti lo straordinario, metta in scena conflitti naturali, forze naturali e sottili…».
Come ricorda nell’introduzione all’antologia di testi Alex Giulio, Artaud intende la Crudeltà in senso lato, come chiarito in una lettera a Jean Paulhan del ’32: «Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta». Quello che l’autore chiama «l’appello alla crudeltà e al terrore» ha lo scopo di «sondare la nostra vitalità interna» per «metterci davanti a tutte le nostre possibilità». Il primo manifesto de Il Teatro e la Crudeltà del ’32 riassume perfettamente, nella violenza rivelatrice dell’incipit, la pars destruens e la pars costruens della visione di Artaud:
«Non si può continuare a prostituire l’idea del teatro, che risiede solo nel rapporto magico e atroce con la realtà e il pericolo.»
La seconda sezione (Lettere, interventi) segue il corso dell’evoluzione del pensiero critico artaudiano, dall’attacco avanguardista all’accademia degli anni giovanili alle vere e proprie visioni sciamaniche dell’ultimo periodo. In questa parte si trovano alcune delle più violente accuse nei confronti delle istituzioni teatrali francesi («Siete degli autentici stronzi. La vostra esistenza stessa è una sfida all’intelligenza. Non c’è meschinità, non c’è dimostrazione, non c’è reclutamento massiccio della cretineria nazionale che non trovi in voi uno scarico o un trampolino di lancio», dalla Lettera All’Amministratore della Comédie-Française del ‘25), tra cui uno straordinario documento ritrovato nel ’75 in Messico in cui Artaud dice addio alla cultura occidentale con accenti che ricordano il suo amato Rimbaud in Mauvais Sang (Non c’è rivoluzione senza rivoluzione della cultura, del ’36), fino alla sconvolgente potenza visionaria delle lettere mandate a Jean-Louis Barrault dal manicomio di Rodez nei primi anni ’40, altamente significative fin dai titoli (Il Teatro è grande solo come manifestazione del Sacro, Vivere è superare se stessi).
La terza e ultima sezione è un’Appendice in cui sono raccolte testimonianze tratte dal dossier Teatro della Crudeltà pubblicato sulla rivista Sipario nel ’65: Una specie di dannazione senza scampo, nella quale André Gide racconta da par suo la memorabile conferenza del ’47 al Vieux-Colombier, dove Artaud «atrocemente scosso da un dio» riversò in tutto il suo carisma luciferino i lucidissimi deliri ispirati dai devastanti nove anni in manicomio; un’altra testimonianza della stessa serata da parte del drammaturgo Jacques Audiberti, il quale sorprendentemente accosta la purezza del «grido dell’uomo trasceso da te stesso» addirittura a quella del Mahatma Gandhi; L’uomo teatro, un commosso omaggio del ’58 firmato dal suo amico e collaboratore Jean-Louis Barrault («Aveva delle idee folgoranti e luminose. Era un personaggio di fuoco, un vero figlio di Prometeo»); testimonianze di maestri del teatro come Julian Beck e Arthur Amadov, nelle quali emerge «il potere di incantamento magico» che il genio francese conferiva alla parola, proprio nel momento in cui la superava disprezzandone i limiti (il primo afferma che «la fantasia di Artaud era terribile, allucinante ma partiva da una presa di coscienza della realtà», il secondo scrive che «una poesia di Artaud è innanzitutto uno choc, un trauma inferto ai punti del corpo più atti a subire un immediato sconvolgimento»).
Chiaramente, un volume di 150 pagine non può esaurire la conoscenza di una delle menti più ardenti del secolo scorso, ma rappresenta un’opportunità da non perdere per cominciare ad accostarsi a un gigante del Novecento. Ricordo, in conclusione, un brano del saggio Il Teatro e il suo Doppio (nella storica versione Einaudi) che esprime in maniera pressoché definitiva il legame profondo tra vita e cultura: «Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è uno strano parallelismo tra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della demoralizzazione attuale e i problemi di una cultura che non ha mai coinciso con la vita e che è fatta per dettare legge alla vita. La cosa più urgente non mi sembra, dunque, difendere una cultura, […] ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame».
Parole che dovrebbero agire come un comandamento solenne su qualsiasi artista e intellettuale contemporaneo.