In questi giorni di forte disorientamento politico, escono a distanza ravvicinata due libri che, attraversando l’arco della nostra storia repubblicana, fra loro paiono parlarsi e allestire un dialogo ideale e proficuo. Il primo risponde al nome dell’etnologo più rappresentativo del Novecento italiano, Ernesto de Martino. La «Collana di pensiero radicale» diretta da Goffredo Fofi per e/o, con il titolo di Oltre Eboli. Tre saggi, ripresenta infatti una triade di scritti «apparentemente lontani ma imparentati tra loro […] che […] ci riguardano molto da vicino», come sostiene nell’Introduzione il curatore, Stefano De Matteis. Si tratta di Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, uscito su «Società» nel settembre del 1949, capace di produrre un dibattito di dimensioni notevoli, al quale parteciparono, fra gli altri, Cesare Luporini, Giuseppe Petronio e Franco Fortini; e si tratta delle Note lucane, presentate l’anno dopo sempre su «Società», nelle quali de Martino raccontava il primo incontro con la Ràbata, il quartiere povero di Tricarico, conosciuto attraverso le mediazione di Rocco Scotellaro e di sua madre, Francesca Armento, e formulava in modo assai netto il suo impegno meridionalistico a favore delle plebi oltre Eboli: anche in tal caso, un testo dalla ricezione problematica, che venne poi ripreso, con qualche variazione interessante, in un libro successivo, Furore Simbolo Valore (1962), ma che dovrebbe leggersi assieme ai tanti interventi di taglio breve che l’etnologo in quegli anni pubblica su piccoli e grandi periodici (dal «Calendario del Popolo» a «La Lapa», da «Lucania» a «Il Contemporaneo») svolgendo il tema del “folklore progressivo”, che accompagna il suo ingresso nel Partito comunista italiano, datato 1953; il terzo scritto, Il problema della fine del mondo, è più tardo – risale al 1964 – e riconsegna il de Martino delle apocalissi culturali, ma con un fondamentale rimando alla precedente esperienza meridionalista. Tre testi, insomma, che pongono al centro due temi all’ordine del giorno, di cui tematizzano, se vogliamo, il legame stringente: la condizione degli oppressi e il senso della fine, gli invisibili e la necessità di una difesa dalle catastrofi, la parte di mondo che può curarsi e la parte di mondo senza nome. Il modo in cui intendere questi nessi è tutto politico. Il richiamo a una loro lezione legittima l’idea di pensarli al presente, nonostante il rischio di isolarli da un contesto, da un dibattito, da una visione complessa dei rapporti culturali, che andrebbero considerati in modo specifico.
Il de Martino degli anni Cinquanta sta assorbendo il pensiero di Gramsci ed è convinto che il marxismo possa dare un contributo sostanziale all’allargamento della coscienza umanistica e occidentale. Da Gramsci eredita l’attenzione non paternalistica nei confronti degli oppressi. Le Osservazioni sul folclore, pubblicate da Einaudi nel 1950 in Letteratura e vita nazionale, restituiscono il senso profondo di questo interesse, specie se lette accanto alle riflessioni che il pensatore sardo formula sulla possibile crescita culturale dei subalterni, sul passaggio da un conformista “senso comune” a un’avvertita e coerente consapevolezza critica: le concezioni di vita dei “dimenticati” non sono un frammento astorico irrelato da tutto il resto, non sono un residuo da catalogare come esotismo pittoresco, ma risultano reciprocamente legate alla condizione mai nettamente pervasiva della cultura egemonica; di quest’ultima sono anzi il “limite”, ne certificano l’impossibilità di una totale signoria, così come l’esistenza di una cultura altra e percepita come arcaica rivela la parzialità del sapere borghese e del suo storicismo “ristretto” (come lo chiamò Alberto M. Cirese). Il meridionalismo di de Martino portava alle estreme conseguenze il suo tentativo di allargare i confini storici e teorici della scuola crociana, nella quale si era formato. Il contenuto dell’esclusione era del resto lì davanti agli occhi di de Martino e non occorreva spostarsi di molto. Le “plebi rustiche del Mezzogiorno” segnalavano, al pari di uno scandalo, il deficit di universalismo dell’emancipazione moderna, l’esistenza di una storia che era stata esclusa perché letta con le lenti gerarchizzanti e naturalistiche di un sapere occidentale in tutto e per tutto autocelebrativo.
È questa tensione militante che va rimarcata e che appare come un monito al disimpegno generalizzato dei nostri tempi, al quietismo di cui siamo interpreti di fronte ai conflitti e alle contraddizioni sociali, in pacifico ossequio all’inevitabile filtro mediatico che si frappone fra “noi” spettatori e “loro” osservati. Incontrando gli uomini e le donne del quartiere povero di Tricarico, de Martino aveva constatato non solo la povertà e l’oppressione, ma aveva colto, con mirabile spirito autocritico, il suo problema, «il problema dell’intellettuale piccolo-borghese del Mezzogiorno, con una certa tradizione culturale e una certa “civiltà assorbita nella scuola, […] che si incontrava con questi uomini ed era costretto per ciò stesso a un esame di coscienza, a diventare per così dire l’etnologo di se stesso». Potremmo oggi vedere in questo lavoro autoriflesso una salvifica pratica di decolonizzazione del proprio immaginario o una salutare oggettivazione delle precondizioni categoriali del pensare: resteremmo tuttavia implicati nel problema di una soggettività fortemente indebolita e nello stesso tempo prigioniera di sé; e resteremmo impigliati nelle maglie di una teoria culturale parimenti sfibrata, quando non autoreferenziale. Il punto è che in una prospettiva umanistica allargata, oggi in svendita, il massimo grado di coinvolgimento del soggetto dovrebbe rovesciarsi in consapevolezza politica generalizzata. E costui dovrebbe essere parte di tale movimento dialettico, dovrebbe farsi assorbire da esso: parafrasando Jean Paul-Sartre, chi fa la dialettica, allo stesso tempo la subisce, nel segno di una demistificazione continua del suo astratto assolutismo mentale. Ma l’uso del condizionale è qui una confessione di incapacità.
Terminata la stagione delle lotte contadine e liquidata la questione meridionale, il passo di de Martino potrebbe essere letto come il relitto filosofico di un tempo andato (ed è la sensazione che si prova, del resto, nel leggere con una certa nostalgia le pagine culturali di quegli anni, a fronte dell’odierno e conformistico, talora surreale, “monologo collettivo” – un’espressione ancora valida di Günther Anders – cui assistiamo nel dibattito contemporaneo). Ma quello shock dovuto all’incontro etnografico, che assume il valore di un’interrogazione critica sulla sua postura di umanista, è forse un momento costitutivo di certe coscienze irrequiete. Lo ritrovo, a distanza di decenni, nell’epilogo di un libro di Alessandro Leogrande, La frontiera (Feltrinelli, 2015), il testamento intellettuale del migliore fra i nostri più recenti meridionalisti. Di fronte al male del mondo, alle contraddizioni sociali e alle vecchie e nuove guerre favorite dall’interesse economico, alle vittime della sperequazione permanente del sistema in cui viviamo, di fronte all’oppressione e alla violenza, l’intellettuale – ma l’uso di questa parola, che descrive la degradazione da funzione civile a ruolo amministrato, suona già limitante – si trova nella posizione di Caravaggio nel suo Martirio di San Matteo. Dipingendo se stesso nell’atto di guardare l’incipiente mattanza, l’artista inscena una «riflessione incandescente sulla violenza del mondo, e sul rapporto che instaura con essa chi la osserva». Il suo sguardo, il suo corpo, come nota Leogrande, è interno alla rappresentazione, «manifestamente accanto alle cose, non fuori»: ne è demiurgo, certo, ma l’auto-collocarsi compromissorio sulla scena del delitto coincide con l’ammissione di impotenza. Non potrà «cambiare il corso delle cose»; l’uomo anziano morirà comunque. Scrive dunque Leogrande: «mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufragi, dei viaggi dei migranti e soprattutto della violenza politica o economica che li genera. […] Non appena osserviamo il mondo con gli stessi occhi di Caravaggio, esso si rivela come un universo di violenza ferina. Tuttavia, non è la violenza a sgomentarci. Ma il fatto che, anche quando comprendiamo pienamente le sue leggi, non riusciamo ad arrestarle».