Tre lunghi interventi dell’etnologo napoletano Ernesto de Martino (1908-1965), due pubblicati su riviste specializzate nel ’49 e nel ’50 intorno alla cultura subalterna e le tradizioni di povere nell’entroterra lucano, uno tenuto in un convegno del 64 sulla fine del mondo, sono stati raccolti per la prima volta in volume con il titolo Oltre Eboli (e/o, pagine 117, euro 8) a cura di Stefano de Matteis.
L’intuizione teorica più attuale, che anticipa pensatori come il Fanon di I dannati della terra, riunisce nella definizione di mondo subalterno “i popoli coloniali e semicoloniali, il proletariato operaio e contadino delle nazioni egemoniche”. Secondo De Matteis nell’intervento del ’49 De Martino, che solo dieci anni dopo pubblicherà le sue opere più famose, Morte e pianto rituale nel mondo antico appena riedito dalla Einaudi a cura di Marcello Massenzio (pagine 371, euro 29), Sud e magia e La terra del rimorso, costruisce un impianto filosofico, valido oggi come
allora, soprattutto per inquadrare la mentalità della borghesia.
Questa “considera gli ultimi cose, non persone”, che erano e sono “vittime dei funzionari di ieri, o dei caporali e dei trafficanti di oggi”, carcerieri accomunati dalla volontà “che Cristo non vada oltre Eboli, perché tendono a ribadire che oltre non c’è storia”, ossia che se pure volessero, non avrebbero alcuna possibilità di emanciparsi.
Entrare nella storia, per i popoli schiavi, significa prendere coscienza della loro condizione e, dunque, ribellarsi, opporsi, combattere. Le note sul soggiorno a Rabata, quartiere povero di Tricarico, possiedono una suggestione narrativa potente in cui si nota la partecipazione solidale dell’autore alle vicende drammatiche della vita dei braccianti, alle prese con la fatica nei campi, i conti a fine mese che non tornano mai, i debiti con il calzolaio e con il venditore di generi alimentari: “Vivono, o meglio contendono al caos le più elementari distinzioni dell’essere: la luce lotta qui ancora con le tenebre e la forzata coabitazione di uomini e bestie suggerisce l’immagine
di una specie umana ancora in lotta per distinguersi dalle specie animali. È assai difficile in
queste case, con questa vita, mantenersi uomini, serbare almeno un debole lume di quel
complesso di affetti che qualifica l’umanità”.
Sembra di leggere un passo di Curzio Malaparte, ma con ben altra consapevolezza politica e di classe, quando in La pelle descrive l’abbrutimento del popolo napoletano rifugiato nelle grotte di tufo per scampare ai bombardamenti. Più avanti De Martino conclude: “Vi è un’esperienza di fondo da cui la gente rabatana deve continuamente difendersi per salvare la propria umanità, per respingere la tentazione bestiale delle cose, ed è l’esperienza dei giorni che passano tutti uguali,
senza storia, senza prospettiva, sordidi e deformi”. De Martino parla della “tentazione bestiale delle cose” e, nell’intervento al convegno, cita Moravia che in La noia “descrive la malattia degli oggetti”. L’etnologo intravede, e denuncia, uno dei modi centrali della disumanizzazione della società capitalista, spingere l’uomo a creare legami con le cose più che tra e con i suoi simili.