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De Martino, l’etnologo “scomunicato” da Togliatti

Autore: Stella Cervasio
Testata: La Repubblica - Napoli
Data: 8 febbraio 2021

“Qual è il compito dello storico? L’allargamento dell’autocoscienza per rischiarare l’azione”. Corre l’anno 1949, Ernesto de Martino – vissuto tra il 1908 e il 1965 – pubblica sulla rivista “Società” (fondata dall’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli e pubblicata tra il 1945 e il ‘61) il testo “Intorno a una storia popolare del mondo subalterno”. Era l’anno in cui Einaudi pubblicava di Propp “Le radici storiche dei racconti di fate”, si parlava di folclore, di magia ma del mondo nel quale la civiltà contadina si muoveva, si spostava in avanti mentre la si credeva volta a guardarsi le spalle, e faceva uso di rituali antichi per raccontare il mondo a se stessa e agli “altri”. Ci voleva un intellettuale attento e profondo come Stefano de Matteis e la direzione di Goffredo Fofi di una delle collane dell’editore e/o – la Piccola Biblioteca Morale – che ritorna per aiutarci a “ricominciare a pensare – scrive Fofi – cercando e trovando lo stimolo necessario a difenderci dalle idee correnti e manipolate.” Arriva così alle stampe “Oltre Eboli. Tre saggi” a cura di Stefano de Matteis, tre testi “da leggere con cura con gli stimoli e gli spunti” che offrono una prima operazione di riscoperta di Ernesto de Martino. L’approdo al Pci fu naturale per l’etnologo che però non fu compreso e anzi “scomunicato” da Togliatti: chi cercava di collocare la magia come manifestazione della religiosità popolare nel presente e nel futuro, non poteva trovare posto nel drappeggio delle vesti di un partito che non ha mancato di scontrarsi con alcune tra le realtà più evolute del proprio tempo e del proprio ambito. Fin dalle prime righe del primo testo vengono i brividi: “L’atteggiamento della civiltà europeo-occidentale verso le forme del mondo popolare subalterno, cioè dei popoli coloniali, semi-coloniali, e del proletariato operaio e contadino delle nazioni egemoniche, rispecchia nel modo più crudo i bisogni, gli interessi e la congiunta limitazione umanistica della classe dominante, della borghesia.” Un mondo di cose, quello popolare subalterno, più che di persone. Concetto meglio chiarito nell’oggi da una notizia delle scorse ore: sapete quanti sono i vaccinati contro il Covid in Africa finora? Appena 25.

Ma sono le dieci pagine del terzo saggio, “Il problema della fine del mondo” che vanno mandate giù come un bicchiere d’acqua nel deserto, di questi tempi. De Martino anticipa, su quest’epoca pandemica d’isolamento e “perdita dei valori intersoggettivi della vita umana”, che la differenza tra “il mondo deve finire” e “il mondo può finire” è nelle mani dello stesso genere umano e di nient’altro.