È circa un anno che è stata applaudita la nuova edizione de La fine del mondo (a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio per Einaudi) che ha riportato nuovamente all’attenzione lo straordinario lavoro di Ernesto de Martino: certamente un maestro ma che, come scrive Riccardo Di Donato, «ha lasciato scolari affezionati, esegeti discussi, non veri successori.» Forse, chi ne ha raccolto il testimone è Carlo Ginzburg, non tanto per dialogo diretto, quanto per quello intellettuale e scientifico, i cui segni si riconoscono nella sua opera – da I benandanti fino a Una storia notturna – e ci auguriamo che raccolga quanta prima i suoi saggi demartiniani in un nuovo volume adelphiano. Restiamo comunque in attesa di un auspicabile rilancio dell’intera opera di de Martino, in grado di risarcirla della marginalità cui è stata condannata a partire dalla sua prematura morte (1965) che gli ha troncato anche il respiro internazionale di cui godeva (pubblicato da Gallimard, con rapporti intensi con i maggiori antropologi francesi a in contatto con le principali riviste inglesi e tedesche). Purtroppo gli anni Settanta hanno giocato per lui di contropiede: la ripubblicazione del dibattito sulle classi subalterne, in maniere riduttiva rispetto alle sue posizioni, lo ha confinato nel mondo del folklore e, in più, la prima e poco felice edizione de La fine del mondo non ha avuto un effetto positivo- basta leggere l’imbarazzante tavola rotonda che ci fu in occasione dell’uscita del volume (cfr. «Quaderni storici» 40/1979) così come la gestione del suo archivio non ha aiutato a mantenere alta la complessità e la profondità del suo lavoro.
Per fortuna è arrivato il nuovo secolo. Sud e magia e La terra del rimorso sono già pubblicati in inglese (grazie alle traduzioni di Dorothy Luise Zinn), mentre manca una nuova traduzione de Il mondo magico (quella esistente urla vendetta!). Un importante convegno organizzato dal Zentrum für Literatur - and Kulturforschung di Berlino nel 2015 ha rilanciato anche in Germania il suo lavoro, che ha trovato in Ulrich van Loyen, oltre che un attento lettore (come dimostra nel suo Napoli sepolta, tradotto da Meltemi), anche un impegnato traduttore de Il mando magico. Da Berna, Michaela Schäuble rilegge le attuali «messe in scena» del tarantismo, mentre negli Stati Uniti hanno avuto modo di verificare personalmente la curiosità a l’interesse che ci sono verso di lui.
È stato Goffredo Fofi, che lo conobbe e frequentò e che è rimasto amico fedele della compagna Vittoria De Palma, a lanciare l’ipotesi di una ripubblicazione (per la Piccola biblioteca morale, collana di «pensiero radicale» pubblicata da e/o e da lui diretta) di alcuni dei suoi saggi più significativi, di cui mettere alla prova la ricaduta nei confronti di un oggi sempre più disperante per verificare le scintille che questo contatto potesse produrre.
Non si voleva comunque forzare la mano per proiettare sulla sua opera improbabili attualizzazioni ma semplicemente misurarci con il senso profondo delle sue riflessioni, confrontandoci con i dispositivi culturali che de Martino ha evidenziato nei casi da lui studiati e che ritroviamo tuttora in molti, altri e numerosi casi presenti intorno a noi, o che noi stessi produciamo naturalmente se abbiamo la sensibilità, l’ascolto a l’attenzione per metterci in relazione e analizzare noi stessi e gli altri, al di là di ogni chiusura disciplinare o politica.
La scelta è caduta anzitutto su un testo successivo alla sua partecipazione alla Resistenza (oggi puntualmente ricostruita da Riccardo Ciavolella in L’etnologo e il popolo di questo mondo, Meltemi) e pubblicato nel 1949, a un anno dal Mondo magico: si tratta di Intorno a una storia del mondo popolare subalterno che tiene conto di più e diversi orientamenti. L’autore chiarisce fin da subito che per subalterno intende quell’universo «dei popoli coloniali e semicoloniali, e del proletariato operaio e contadino delle nazioni egemoniche» verso cui l’atteggiamento della civiltà europeo-occidentale coincide con quello della borghesia: gli ultimi sono considerati cose e non persone, restano le vittime dello sfruttamento dei funzionari coloniali di eri, o dei caporali e dei trafficanti di oggi, che comunque voglio che Cristo non vada oltre Eboli, perché tendono a ribadire che oltre non c’è storia. Da qui il titolo Oltre Eboli, proprio perché il suo orizzonte non si limita al Mezzogiorno, ma guarda ai primi segnali della decolonizzazione e accoglie, schierandosi, tutti quei «popoli coloniali e semicoloniali che si sollevano contro il giogo imposto dai paesi egemonici» e che si uniscono in una controprova delle prospettive frequentate nel Mondo magico come ennesimo capitolo della lotta per la vita.
Personalmente sono convinto che oggi l’apertura e l’intreccio prospettati da de Martino possano essere ripensati nell’ottica degli attuali movimenti di popolazione che vedono l’Italia, e in particolare il Sud, come parte integrante del Mediterraneo – straordinario campo di forze malauguratamente costretto a diventare una fossa comune.
Rispetto a quanto sta accadendo, molti non si sono limitati a essere spettatori inerti o indifferenti dell’elevatissimo numero dei morti e delle condizioni in cui i migranti sono costretti. Sono stati in tanti a trasformare il senso di colpa in rabbia, e la vergogna verso tutto questo in coraggio. Esattamente come sostiene de Martino nelle straordinarie pagine in cui narra dell’incontro con la miseria a la povertà della Rabata di Tricarico, che chiudono il secondo testo, Note lucane, selezionato per permettere al lettore di misurarsi con la ricerca, l’inchiesta, il contatto con i contadini a le loro produzioni «culturali»: il teatro spontaneo, le canzoni di protesta, la solidarietà tra miseri e poveri. Un mondo questo che si situa in un ambito extra gramsciano e lascia intendere gli interessi dell’autore verso i «marginali» e i sottoproletari – che gli valsero la scomunica di Palmiro Togliatti – ma che al tempo stesso lo lega alla storia avviata da Levi con il suo libro più famoso, e proseguita con il lavoro di Scotellaro fino a Danilo Montaldi, pur all’interno di coordinate certamente più dense a ricche, sul piano della riflessione etnografica, filosofica, storica, antropologica a religiosa.
Nelle ultime pagine del suo viaggio in Lucania, il confronto con la vita misera e povera della Rabata produce una misura di umanità, un esercizio di riflessione, un esame dei sentimenti più profondi, un capolavoro di auto-antropologia e, nello stesso tempo, una lezione di moderna antropologia. In questa autoanalisi culturale de Martino mostra il suo legame profondo, da non cattolico praticante, con la figura storica e simbolica di Cristo, con le radici del cristianesimo e la potenza dei Vangeli. Oggi esiste tanta antropologia «riflessiva» che esalta il proprio Io e indugia sul proprio ombelico: qui abbiamo invece una lezione molto seria di come ci si relaziona col mondo che ci circonda in modo da comprendere se stessi in rapporto al contesto e fare i conti con se stessi. In quelle due pagine de Martino si misura con la sua impotenza a ci invita a fare lo stesso. L’incontro c’è nel momento in cui si mettono in campo due sentimenti oggi poco praticati come la collera a la rabbia... Quelle pagine ci aiutano a capire non solo lui e il suo tempo, ma anche le nostre emozioni, per cercare un modo di indirizzarle verso l’azione collettiva condivisa.
L’ultimo è uno dei pochissimi testi pubblicati dall’autore in merito alla ricerca sulle apocalissi culturali. Lo potremmo arricchire con riferimenti alle nostre personali esperienze di questo 2020 appena trascorso, alle strategie con cui abbiamo cercato di affrontare il rischio e la fine del mondo prospettata nell’ultimo anno, adottando, inventando e riscrivendo rituali protettivi.
Rispetto all’oggi, sicuramente Ernesto de Martino, nonostante i suoi 114 anni, saprebbe ancora rispondere con chiarezza e con la sua solita radicalità alla ricorrente domanda di ritorno alla normalità che viene formulata da più parti. E saprebbe dirci che non vorrebbe mai un ritorno a quella normalità che ha creato tutto quello che stiamo vivendo. Anzi, ribadirebbe una centralità dell’uomo e, quindi, della difesa della terra e delle risorsi naturali contro i soprusi operati di continuo. Temi che coinvolgono tutti noi, vicini e lontani, ieri come oggi, visto che tuttora possiamo affermare con lui che «la mia fatica di studioso si inseriva in un vasto quadro di un movimento mondiale, ed era anch’essa un momento di una vicenda di liberazione che stringeva insieme, su tutta la superficie della terra, nella complicazione e nella varietà delle situazioni locali, uomini diversissimi».