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De Martino, non tutti i dannati sono dannati allo stesso modo

Autore: Fabio Dei
Testata: Il Manifesto
Data: 3 gennaio 2021
URL: https://ilmanifesto.it/de-martino-non-tutti-i-dannati-sono-dannati-allo-stesso-modo/

Ben oltre i confini dell’etnologia e della storia delle religioni, Ernesto De Martino è riconosciuto come uno dei grandi intellettuali italiani del Novecento, ciò che spiega un successo editoriale di cui è ora testimone il titolo (inserito nella nuova collana «Piccola biblioteca morale», diretta da Goffredo Fofi) Oltre Eboli (a cura di Stefano De Matteis, e/o, pp. 112, € 8,00) che raccoglie tre saggi molto noti e rappresentativi di altrettanti temi o momenti. Il primo, Intorno a una storia del movimento popolare subalterno, pubblicato sulla rivista «Società» nel 1949, è il testo con cui De Martino, reduce dalla stesura del Mondo magico, tenta di collegare etnologia e folklore al dibattito politico dell’Italia postbellica.

Influenzato dalla freschissima lettura dei Quaderni del carcere di Gramsci, ma anche da un certo mito della «libera» cultura sovietica (che presto abbandonerà), critica l’idea di neutralità delle scienze sociali e lega la conoscenza etnologica all’impegno per l’emancipazione dei ceti subalterni (espressione in cui fa convergere i contadini poveri del Sud Italia e i popoli coloniali). Per alcuni anni al centro del cosiddetto «dibattito sul folklore», questo testo farà sì che De Martino venga accerchiato da critiche di segno diverso: crociane da un lato, marxiste dall’altro.

La fase meridionalista Il secondo articolo, Note lucane datato 1950, è il resoconto di uno dei primi viaggi etnografici nel Mezzogiorno: con toni quasi poetici, De Martino evoca la dolente condizione esistenziale delle «plebi rustiche» (famosa la descrizione della Rabata di Tricarico, il paese di Rocco Scotellaro, dove gli uomini «contendono al caos le più elementari distinzioni dell’essere»). Diversamente da Carlo Levi, De Martino non indulge a una visione primitivista, e non distanzia quegli uomini come «oggetti» di studio antropologico: insiste invece sulla loro volontà di «entrare nella storia», tema che dominerà le grandi monografie degli anni successivi, come Sud e magia e La terra del rimorso.

Il terzo testo della raccolta, Il problema della fine del mondo, è un breve saggio edito nel 1964, dove De Martino anticipa temi che andava sviluppando per una sua nuova opera, destinata a restare incompiuta, perché la morte lo coglie improvvisamente nel 1965, a soli 57 anni (è il libro che esce postumo nel 1977 col titolo La fine del mondo, e di cui Einaudi ha proposto di recente una nuova edizione).

Conclusa la fase meridionalista, De Martino torna qui al nucleo teorico portante dell’intera sua opera: l’idea di una umanità che costruisce attivamente i suoi mondi culturali, trascendendo nel valore e nel significato la pura esistenza naturale, e restando tuttavia costantemente attanagliata dall’angoscia che tale «mondo» (l’ovvietà del quotidiano e del «domestico») possa crollare, «finire».

Si tratta allora di capire come trova rappresentazione un tale crollo, questo passaggio dal cosmo al caos: De Martino affronta il problema studiandone varie manifestazioni, dal delirio schizofrenico, alle rappresentazioni religiose a quelle artistiche e letterarie. Ma, soprattutto, gli preme capire quali siano le strategie messe in atto per far fronte alla messa a rischio dell’esistenza: la risposta evidenzia il meccanismo rituale della protezione e del riscatto dalla crisi dell’esserci nel mondo, ovvero lo stesso dispositivo che De Martino aveva visto all’opera nella magia lucana, nel tarantismo pugliese o nel pianto rituale, e che adesso tenta di estendere alle più varie forme della cultura contemporanea. Come gli sciamani del Mondo magico, gli intellettuali di oggi mettono in scena la crisi per poterla poi risolvere, scendono agli inferi per tornare «redenti» in superficie.

Diversi i contesti Il curatore suggerisce di leggere questi saggi investendo nella loro attualizzante: chi sono coloro che si trovano, oggi, «oltre Eboli», nel senso non solo geografico del termine? Altre e diverse categorie di diseredati, di «dannati della terra», come i migranti sfruttati dai caporali, le masse in fuga dalla guerra e dalla fame.

Maturata nel contesto di un Sud arcaico, popolato di «plebi rustiche» che non ci sono più, l’analisi di De Martino vale ancora quando la si applichi ad altre tipologie di subalterni, e in questo senso, scrive De Matteis, «ci illumina sul nostro presente». Certamente, a patto di non contentarsi di trasferire sui migranti l’engagement, la «cattiva coscienza» e la volontà di «redenzione» degli intellettuali (e degli etnologi) di oggi, quasi il problema fosse trovare sempre nuovi «dannati della terra» da salvare, e tramite i quali salvarci.

Quanto a quell’ampio popolo «interno» con cui gli intellettuali non riescono (in epoca di populismo) a dialogare, proprio il De Martino di Fine del mondo aveva mostrato come la crisi della presenza non riguardi solo le sacche di arretratezza e disuguaglianza, la «cultura della miseria», le soggettività oppresse e culturalmente isolate, ma investa l’intera società moderna e di massa, opulenta ma esistenzialmente non meno precaria.