L’Italia non è un solo Paese. Dal dualismo Nord-Sud, dell’inizio del secolo scorso, si è poi passati alle «tre Italie» con l’introduzione dei distretti industriali: regioni centrali e nord-est. Anche quest’ultima suddivisione, però, nata dalle ricerche di Arnaldo Bagnasco alla fine degli anni 70, come la precedente, non corrisponde più alla realtà economica e sociale dei nostri territori.
I PROCESSI INDOTTI dalla globalizzazione e l’inadeguatezza con la quale poteri pubblici e privati hanno risposto alle sfide imposte dai nuovi assetti del neocapitalismo, ci obbligano a esaminare il nostro Paese in altro modo: «Invertendo lo sguardo» come invita il Manifesto per riabitare l’Italia (Donzelli, pp. 239, euro 19) – seguito del volume collettaneo a cura di Antonio De Rossi, Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (Donzelli, 2018) – e riflettendo su una diversa relazione centro/periferie, maggioranze/minoranze, come scrive Goffredo Fofi in Le cento città. L’apporto delle regioni alla storia della nostra letteratura (edizioni e/o, pp. 80, euro 8).
È interessante la convergenza di analisi che provengono da discipline così diverse ed è probabile che neppure Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli, curatori della raccolta dei «commenti» al Manifesto, potessero immaginare l’utilità del contributo della storia e della critica letteraria alla loro causa. È la dimostrazione che una più vasta platea di discussant li attendono oltre i cinque invitati per discutere le tesi del Manifesto: Tomaso Montanari, Gabriele Pasqui, Rocco Sciarrone, Nadia Urbinati, Gianfranco Viesti.
PER INIZIARE a intraprendere un’energica inversione di tendenza, occorre considerare un incontestabile dato storico e permanente. Fofi lo illustra con efficace sintesi ed è quello della «vitalità delle culture locali e della loro grande ricchezza» in modo variegato distribuite su tutta la penisola.
Dagli scritti del Cattaneo alle pagine di Levi e Piovene per arrivare a quelle di Calvino e Pasolini e di molti altri, la letteratura ci ha insegnato a riconoscere bene, quanto lo fece il cinema di Rossellini negli anni del dopoguerra e di Comencini alla fine degli anni 60, la diversità del patrimonio culturale italiano anche se molto è stato modificato e perso. Questa «vitalità» culturale, coincidente con la storia regionale, sciaguratamente è stata avvilita dalle spinte centralizzatrici imposte dal fascismo ed è continuata nel periodo della «grande mutazione», per giungere in anni recenti allo spettacolo delle «parodie del potere centrale» con le figure dei «governatori» regionali e con il conformismo dell’informazione dei media, televisione e giornali.
FOFI SI CHIEDE se in una situazione così compromessa «si può davvero parlare oggi di ’vitalità’ delle province» nelle quali il modello egemone è quello di una «politica chiusa ed egoista, corporativa e settoriale», anzi dove centro e periferia «sembrano gareggiare tra loro nell’opposto del ’ben fare’ dantesco e del ’buon governo’ lorenzettiano».
Eppure le aree periferiche del Paese, quelle più marginalizzate, pur mortificate dall’egemonia di «politiche avulse dai contesti, ’cieche ai luoghi’», come riporta il punto terzo del decalogo che compone il Manifesto, sembrano reagire autorganizzandosi anche in assenza di risorse e strumenti più adeguati per sostenere l’impegno civile di cittadini e di comunità.
L’elemento centrale e da tutti condiviso, è l’entrata in crisi della «funzione direzionale» delle grandi aree metropolitane prodotta da una pluralità di cause che la pandemia ha solo reso più drammaticamente evidenti. I «luoghi» da considerare, come spiega Pasqui, sono più estesi e diffusi di quelli fino ad oggi considerati. Sottendono «pluralità di popolazioni e forme di vita» che richiedono di essere sostenute perché innestino «nuove economie ambientali, energetiche e del turismo» che non solo gli consentano di esistere, ma che siano in grado di interagire con le aree tradizionali dello sviluppo entrate in crisi.
SI TRATTA DI QUALCOSA di più complesso del far crescere nuove comunità nei borghi abbandonati come si propaganda con petulante insistenza. Occorre piuttosto un approccio serio e concreto, place-based: ovvero seguire un metodo rivolto all’ascolto dei luoghi, innanzitutto, per definirli nei loro confini e così avere «visioni comuni di area». Visioni necessarie affinché, come ricorda Fabrizio Barca, si possa «elaborare una strategia, individuare i progetti per conseguirla ed essere dotata della tecnostruttura e dei fondi per farlo» perché non tutti i luoghi potranno essere rivitalizzati (Curci, Zanfi). Non tutto potrà essere sottoposto alla rigenerazione, quindi bisognerà favorire «l’esistente e l’esserci» e ammettere che «l’unico scenario possibile è quello del qui e adesso» (De Rossi-Mascino).
SUPERFLUO DIRE che c’è bisogno di una «nuova (antica) concezione della politica e della democrazia» promossa, come scrive Fofi, da «minoranze attive ed etiche». Proprio per questo deve assumere più importanza la «vita locale» in relazione con quella «nazionale», un legame che nel corso degli ultimi anni, come ci ricorda Urbinati, è stato spezzato, assottigliando la rappresentanza politica.
Di questo ci si dovrà occupare con sempre più determinazione in un prospettiva di cambiamento, se intendiamo «abitare» il nostro Paese per salvaguardare le sue bellezze, promuovere le conoscenze e cancellare le disuguaglianze.