Una vita intera in dieci giorni. O, meglio, dieci giorni per imparare la vita. Con il secondo volume della sua “Quadrilogia della famiglia”, Fabio Bartolomei conferma la sua capacità di guardare ai rapporti famigliari con dissacrante tenerezza. La protagonista è Camilla, diciotto anni appena compiuti e una quotidianità trascorsa nell’agiatezza, grazie a una famiglia borghese, “educata, composta” (p. 17), con due genitori “supporter sfegatati” (p. 28) che non le hanno mai fatto mancare nulla e anzi l’hanno sempre protetta da qualsiasi delusione e da qualsiasi responsabilità. L’autore è abile, piegando alla sua ironia molti degli stereotipi sull’adolescenza, a descrivere una giovane superficiale, cresciuta tra paghette e social network, festine e bambagia. Al contempo, non mancano i consueti tocchi di verosimiglianza con cui un iniziale scenario potenzialmente surreale viene reso plausibile (e Bartolomei si conferma anche in questo caso grande artigiano della parola). Camilla attraversa le sue giornate con una leggerezza che deriva dalla totale assenza di contenuti a fare da zavorra alla sua personalità, accompagnata da due amiche che per lei sono un insostituibile complemento, con cui far fronte alla radicale incomprensione da parte dei loro tutori:
un’amicizia [la loro] cementata dalla complicità di stampo massonico, dalla condivisione di tragedie che, a differenza degli adulti, nessuna di loro si sognerebbe mai di sminuire, dai conclave nei bagni per confidarsi segreti da non dire, quasi, a nessuno. E anche dalle piccole gelosie appianate con sfiancanti discussioni e giuramenti mano sul cuore, dalle bravate con cui tentano di rubacchiare scampoli di vita adulta. (p. 16)
È in una qualunque di queste giornate che la ragazza, tornando a casa, scopre di essere stata abbandonata da entrambi i genitori, scappati di casa, indipendentemente l’uno dall’altro, dopo anni di ipocrisia e finzione, ora che lei ha raggiunto la maggiore età e può avvalersi degli “strumenti” che le hanno fornito per cavarsela (che non sono, come Camilla per un attimo spera, i contanti e la carta di credito). All’inizio non è facile per il lettore provare simpatia per la protagonista, che appare totalmente inconsapevole dell’ordine delle priorità (è più importante mettere un cuoricino su Instagram ai suoi followers che leggere la lettera della madre, e l’allontanamento dei genitori può essere posto sullo stesso piano di altre tragedie equivalenti, come l’acquisto su Internet di un paio di sandali che sono arrivati del colore sbagliato...). Anche nell’analisi dei suoi sentimenti, il rapporto tra emozione e condivisione appare sovvertito: “invia un messaggio vocale dicendo che e distrutta. E mentre lo invia si sente distrutta sul serio” (p. 20). La sua prima preoccupazione, trovandosi sola, non è tanto di essere d’un tratto priva dei propri punti di riferimento, quanto della compromissione della sua vita perfetta (vorrebbe riaverla, più che riaverli). Per quanto la riguarda, i suoi hanno mandato all’aria la sua esistenza senza motivo, i fidanzatini hanno volontariamente infranto il loro sogno romantico a suo danno (le ci vorrà un bel po’ per ritornare con la memoria al passato e cogliere inquietanti segnali di freddezza tra il padre e la madre, prima accuratamente rimossi per salvaguardare una perfezione di facciata). Il breve romanzo di Bartolomei prende le mosse dal Bildungsroman della tradizione, con tanto di viaggio che simbolicamente allontana la protagonista da casa per farle fare – per la prima volta – esperienza del mondo. Ma chi conosce la prosa sorridente di questo autore sa che l’itinerario di formazione di Camilla non può essere convenzionale, e difatti passa attraverso una esilarante rassegna di sventure, tutte chiaramente indotte dalla sventatezza della protagonista, che si fida di chi non dovrebbe fidarsi (“hanno gli stessi gusti musicali, più di una volta ha commentato positivamente le sue foto, quindi sì, sono proprio amici”, p. 53), fraintende le buone intenzioni altrui (facendo danni con uno spray al peperoncino utilizzato incautamente), si infila in situazioni che non è in grado di gestire (tra cui si annoverano, solo per dirne alcune, macchine rubate, passeggiate in quartieri di malaffare, occupazioni abusive di edifici, retate della polizia…). Eppure, nel breve volgere delle pagine, Bartolomei riesce a disseminare il testo di indizi che portano il lettore ad aggiustare progressivamente la sua impressione iniziale, perché Camilla è di fondo una ragazza buona, a cui sono mancati modelli educativi credibili:
Ricorda una frase del padre: “Una società che non sa prendersi cura di bambini, anziani e ammalati è una società di mostri”. Poi ricorda la volta che lo stesso padre, facendo retromarcia, aveva mandato gambe all’aria un ragazzino in bicicletta andandosene poi come se nulla fosse. Tanto non si era fatto niente. E ricorda quel sorriso sottile della madre quando parcheggiava in un posto riservato ai disabili con il contrassegno rimediatole da un amico. A Roma non c’è alternativa. (p. 66)
E se non ci sono riferimenti a guidarti, la crescita diventa un avanzare a tentoni, un procedere attraverso leggi e teorie tratte dagli eventi con ragionamenti induttivi non sempre correttamente applicati. Sono incontri fortuiti, situazioni stravaganti, soggetti non sempre affidabili, e sicuramente non comuni, quelli che la aiutano ad allargare le sue prospettive, a proiettarsi in un futuro più lontano dell’estate successiva, a capire chi sono i suoi veri amici. Tirata fuori dal contesto dei social di cui è reginetta, Camilla si rivela quasi sempre inadeguata nel mondo reale, ma questo non rende meno vero il suo reagire, il riassetto graduale del suo sentire. Inizia anche a capire meglio il suo passato, a scrollarsi di dosso quel “decoro” che rischia di fare dell’esistenza borghese una prigione di falsità.
Nel vedere un reportage fotografico ambientato in Siria, all’inizio Camilla si meraviglia che l’autrice non compaia mai nei suoi scatti. Apparire nella foto le sembra infatti l’unico modo per dimostrare di aver vissuto. Il racconto si può leggere allora come la storia di uno slittamento di prospettive, in cui la protagonista impara che non mettersi più al centro (della scena, dello scatto, dell’esistenza) è l’unico modo per imparare a vedere davvero. Sono ciechi quelli che non guardano in profondità, lei stessa lo è stata per molto tempo, ma una volta aperti gli occhi non si può più tornare indietro. E allora quel marasma che si agita dentro, quel malessere che aggroviglia lo stomaco completamente nuovo, mai provato, è sintomo di qualcosa di buono, a cui lasciare spazio.
A differenza che in Morti ma senza esagerare, qui si indaga la famiglia non più come puntello della crescita, ma come freno rispetto all’acquisizione di autonomia, allo sviluppo di una personalità completa e coerente. Ecco quindi che un allontanamento, seppur temporaneo e indotto, non certamente ricercato, può diventare propulsore di un cambiamento rapido, come avviene a Camilla nell’arco dei primi dieci giorni della sua età adulta.