In generale, pare che la cultura italiana sia un affare di grandi città: Milano e Roma con le ormai decadute Torino e Firenze. Le cento città. L'apporto delle regioni alla storia della nostra letteratura dall'Unità a oggi (edizioni e/o, pagg. 70, euro 8) di Goffredo Fofi ci ricorda che le cose non stanno affatto in questi termini. A seconda degli anni e delle influenze, scrive Fofi, la cultura italiana ha espresso una vitalità e varietà regionali sorprendenti, da far impallidire qualunque altro Paese europeo (con le possibili eccezioni di Inghilterra e Germania, secondo il critico). C'è un ostacolo a questa estrema ricchezza: la forza omologante del «centro» e del «centralismo», cioè la vigorosa spinta al conformismo esercitata dalla classe dirigente. Nel Novecento, l'industria editoriale milanese, con appendici torinesi e romane, ha sviluppato la tendenza a uniformare la proposta ed emarginare le voci meno addomesticate. Un processo che non ha risparmiato le altri arti, anzi è stato, ad esempio, ancora più forte in campo cinematografico. Il risultato è una cultura mediocre, incolore, insignificante, serializzata. Fofi però fa un passo ulteriore, che rende il saggio di bruciante attualità. In fondo, che geografia e storia della letteratura italiana dovessero andare di pari passo, l'aveva spiegato, in via definitiva, Carlo Dionisotti in un famoso saggio del 1967. Ora, però, siamo chiamati a interrogarci su un altro aspetto, più politico che storico. Un aspetto, sempre latente nell'Italia unita, portato in primissimo piano dall'emergenza Covid: molti italiani stentano a riconoscersi parte di una comunità nazionale retta da regole certe e garantite dall'autorità statale. Insomma, la crisi culturale è un fenomeno particolare di una crisi ben più profonda. Il dibattito è aperto.
Torniamo alla letteratura. A testimonianza dei buoni argomenti di Fofi, possiamo subito invocare Fabula veneta. Incontri con scrittori, editori, poeti (Apogeo, pagg. 210, euro 18) di Maurizio Caverzan. È un'antologia di interviste, tutte eccellenti, a personaggi del calibro di Ferdinando Camon, Nico Naldini, Antonia Arslan, Francesco Permunian: maestri, dunque. Ma Caverzan ha un occhio di riguardo, in cui risiede la cifra del libro, a nomi più recenti: Francesco Maino, Francesco Targhetta, Romolo Bugaro, Giancarlo Marinelli, Vitaliano Trevisan e altri. Naturalmente tutti o quasi rifiutano l'etichetta di «autore veneto». Però... La loro distanza dal centro emerge sia fisicamente, per così dire, visto che Trevisan vive in un paese di 2000 anime, lontano da tutto, sia linguisticamente, e l'intervista a Maino è illuminante in merito (sì «alla lingua antica, timida, modesta, povera, la lingua del dolore e del sacrificio che usava mia nonna»; no al dialetto folcloristico o edulcorato, l'altra faccia della medaglia del «tecno-british» delle «start up»).
In realtà, il Veneto ha sempre avuto una forte identità culturale, certamente intrecciata alla storia d'Italia ma dalle caratteristiche così peculiari da poterla descrivere come «autonoma». In questo il Veneto è molto simile a una Regione che sta dall'altra parte del Paese: la Sicilia. Potremmo aggiungere il Friuli, attraverso la voce del suo intellettuale più significativo, quel Pier Paolo Pasolini, bolognese, per il quale il friulano era una lingua d'elezione, letteraria e autentica al contempo, da avvicinarsi al provenzale o al catalano dei trovatori medievali. Ma restiamo in Veneto. L'industria tipografica si sviluppa a Venezia. Il primo editore moderno, Aldo Manuzio, era nato a Bassiano (Latina) ma aprì bottega nella Serenissima. Incalcolabile l'influenza veneta sul Rinascimento delle arti. Per limitarsi alla pittura, la scuola veneta, cioè il colore, contrapposta a quella fiorentina, cioè il disegno, va da Giovanni Bellini ad Andrea Mantegna, Giorgione, Tiziano e Tintoretto. La questione della lingua, di cruciale importanza in una penisola politicamente divisa, fu affrontata innanzi tutto da veneti. Fu il veneziano Pietro Bembo a scrivere Le prose della volgar lingua (1525), la prima grammatica storica, nella quale si proponeva l'imitazione di Petrarca e Boccaccio, due toscani. Fu il vicentino Gian Giorgio Trissino a propugnare la necessità di creare una lingua italiana dalla fusione delle varie lingue regionali.
Insomma, la pretesa del «centro» di essere anche il cuore della cultura italiana non è suffragata dalla realtà. I grandi gruppi editoriali infatti non sono il motore propulsore della cultura italiana. Al contrario, hanno abdicato a questo compito, che pure hanno ricoperto in passato. Hanno preferito le pappe omogeneizzate nella speranza di venderle e poi neppure le hanno vendute. Comunque, anche se il fatturato venisse moltiplicato per mille, resterebbe il fatto che la rilevanza della cultura non si misura in dobloni.