Ricordo quando, tanti anni fa, in pieno inverno raggiunsi Jasnaja Poljana, la casa natale di Lev Tolstoj, in treno da Mosca. Era un convoglio praticamente vuoto, all’indomani della fine dell’Unione Sovietica. L’ultimo tratto verso l’antica dimora lo percorsi in macchina sulla pista ghiacciata: a un certo punto la vecchia Zhigulì, come si chiamavano le Fiat 124 prodotte negli stabilimenti sul Volga, sbandò e finì fuori strada; per disincagliarla l’autista, un soldato di leva, si fece aiutare da alcune commesse di un magazzino alimentare le quali, sfruttando un momento di pausa, stavano rifacendosi lo smalto alle unghie e tuttavia non esitarono, dopo aver calzato gli stivali e indossato i berrettoni, a rimetterci in carreggiata.
In quel frangente ebbi la sensazione di essere già entrato nello spirito del romanzo russo che mi apprestavo a rievocare. Giunto a destinazione, mi colpì la tomba dello scrittore, semplicissimo tumulo posto ai piedi di un albero maestoso ai margini del bosco. Tolstoj morì il 20 novembre 1910, centodieci anni fa. Accanto all’unità padronale, vidi la scuola che aveva organizzato per i bambini poveri, al tempo in cui era ancora giovane. Cominciò con qualche maestro e pochi studenti. Presto i numeri aumentarono. Nel periodo di massima espansione l’intero nucleo didattico arrivò a comprendere una ventina di edifici con un centinaio di allievi. Le autorità s’insospettirono e ordinarono ispezioni di controllo. Soltanto l’intervento personale dello zar dissipò i dubbi di quanti immaginavano che il direttore scolastico fosse un pericoloso ribelle.
Tolstoj, fresco sposo trentenne, ricco e colto, già autore della trilogia autobiografica e di alcuni folgoranti racconti, l’ultimo dei quali intitolato I cosacchi, aveva cominciato a interessarsi di pedagogia fondando anche una rivista a cui diede il nome della sua tenuta. In quella sede apparvero alcuni articoli, ricavati dall’esperienza di insegnamento nei mesi di novembre e dicembre 1862, che oggi noi possiamo leggere in un volume imperdibile, con una bella prefazione di Marco Carsetti: Per una scuola viva, per una scuola vera (edizioni e/o, pp. 208, 9,50 euro), in una collana diretta da Goffredo Fofi.
La propulsione iniziale che spinse il vulcanico proprietario ad acculturare i suoi contadini, costretti a vivere nell’indigenza più assoluta, come servi della gleba, potrebbe dirsi filantropica, se tale definizione non fosse troppo riduttiva. In realtà egli voleva creare “un altro mondo”, migliore di quello che aveva sotto agli occhi, eppure non si crogiolava nell’illusione palingenetica del falansterio, bensì chiamava se stesso all’impegno diretto coi figli dei coltivatori: Savin, che pur sapendo scrivere pareva incapace di dire una sola parola; Grisin, altrettanto muto e quasi inviperito; Pet’ka, scontroso e ostinato. E così immediatamente concepì uno spazio dove questi ragazzi potessero trovarsi a proprio agio, entrando in classe quando volevano, sedendosi dove desideravano, con docenti motivati che si dedicavano totalmente a loro, in quanto abitavano all’interno della struttura scolastica. Non c’era bisogno di portarsi i quaderni perché stavano in aula.
Non esisteva l’idea del compito da svolgere e neppure della lezione da impartire. Spesso si usciva all’esterno. L’occhio dello scrittore anticipò molti dei ragionamenti che sull’educazione saranno elaborati nel secolo successivo: «Fuori dalla scuola, nonostante tutta la sua libertà, all’aria aperta, fra gli allievi e il maestro si stabiliscono nuovi rapporti, di maggiore libertà, maggiore semplicità e maggiore fiducia; quegli stessi rapporti che ci sembrano l’ideale al quale deve tendere la scuola». Tolstoj comprese come pochi il nocciolo autentico dell’istruzione. Ciò che scrive sui meccanismi logici pronti a scattare durante l’insegnamento della lingua materna dovrebbe essere illustrato in ogni corso di formazione. Lo studio della grammatica intercetta categorie mentali già acquisite nel bambino. È come se il professore, nel momento fatidico dell’apprendimento infantile, fosse chiamato a guidare questa configurazione inconsapevole del pensiero umano.
Nessun metodo può risultare valido di per sé, l’importante è che non ostacoli, ma faciliti il processo verbale attraverso cui scorre l’espressione dei nostri moti interiori. Non bisogna partire dalla propugnazione delle leggi generali, bensì dalla memoria personale dello studente. No all’interrogazione singola che drammatizza il rapporto col docente. No alla ripetizione meccanica degli appunti. Ogni esame produce trucchi e finzioni, non vera conoscenza. Per verificare ciò che uno studente sa di una cosa, dovremmo vivere insieme a lui per qualche mese. Altrimenti non potremmo evitare i peggiori infingimenti: «Il ginnasiale studia la storia, la matematica, e, ancor più importante, “l’arte di rispondere agli esami”. Io considero quest’arte un’inutile materia di insegnamento».
Parole, sante, di un genio della letteratura che non aveva ancora composto Guerra e pace e Anna Karenina, ma le cui idee su cosa significasse studiare e apprendere erano ben chiare fin da allora. Al punto di arrivare a descrivere in pagine indimenticabili (115 e 116 della citata edizione) l’essenza profonda del maestro, legata al suono della voce, alla luce degli occhi, ai gesti che accompagnano le sue parole. Tale disposizione d’animo, spiegava Tolstoj, «è impossibile inventarla e prepararla artificialmente e non è nemmeno necessario perché si presenta sempre da sola».