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Salute mentale e linguaggio letterario | “La biblioteca di Mezzanotte” di Matt Haig

Autore: Alessia Ragno
Testata: L'indiependente
Data: 4 novembre 2020
URL: http://www.lindiependente.it/la-biblioteca-di-mezzanotte-matt-haig/

«Non so se ce la faccio. Ho la testa completamente vuota».
«Pensi troppo».
«Ho l’ansia. E non conosco nessun altro modo di pensare».

È Nora Seed a parlare, la protagonista de La biblioteca di mezzanotte, il nuovo romanzo di Matt Haig, scrittore e giornalista inglese, tradotto in italiano da Paola Novarese per Edizioni E/O. Nora è una ragazza di 35 anni che tenta il suicidio, ma poi si risveglia in una biblioteca in bilico tra la vita e la morte; ciascun libro sugli scaffali corrisponde ad una scelta mancata, la materia di cui sono fatti i suoi rimpianti; ciascuna scelta è una vita possibile da sperimentare. Haig torna, così, alla letteratura fantastica con questo romanzo che all’apparenza è una favola tra “La vita è meravigliosa” di Frank Capra, di cui mantiene qualche citazione nascosta, e le “Sliding doors” di Peter Howitt. Nella pratica, però, è frutto dell’impegno quotidiano di Haig nella sensibilizzazione alla cura della salute mentale, al dialogo sui disturbi psicologici e lo stigma che li accompagna. Come autore Haig ha scritto molti romanzi (“Come fermare il tempo” e “Il patto dei labrador”, entrambi Edizioni E/O), libri per bambini, ma soprattutto due memoir che hanno segnato un punto di svolta, per il mondo anglosassone, nel dialogo su suicidio e malattie mentali: “Ragioni per continuare a vivere” (Ponte alle Grazie, 2015) e “Vita su un pianeta nervoso” (Edizioni E/O, 2019) raccontano la durezza della malattia e la convivenza quotidiana con i pensieri disfunzionali che innesca. Entrambi i volumi sono la dichiarazione di intenti di un autore che racconta la propria esperienza di vita con i pensieri suicidi, i sintomi depressivi, ansia e panico e lo fa con un linguaggio che cambia le regole della comunicazione in questo ambito. La frase «non conosco nessun altro modo di pensare», che Haig fa pronunciare a Nora all’inizio del romanzo, è la sintesi perfetta della sua “poetica”: di depressione e altri disturbi della sfera emotiva si deve parlare, affiancando alle metafore oscure della letteratura classica anche un linguaggio più moderno e diretto. La modernità della frase è esplosiva: niente indugi sulla sublimazione dei sentimenti, quasi i pensieri dell’ansia fossero troppo volgari per la letteratura, ma raccontare ciò che è direttamente, dichiarando tutto l’orrore del pensiero ossessivo della malattia. C’è ironia e consapevolezza, siamo al confine con la battuta d’effetto, ma è questo che rende tangibile la verità più assoluta del disturbo d’ansia, per esempio. Chi ne soffre in prima persona si riconosce immediatamente, gli altri possono avere finalmente un assaggio delle battaglie mentali altrui in un esercizio universale di empatia. E Haig avvia, così, un dialogo sulla malattia che fa del linguaggio chiaro e immediato la sua caratteristica di punta.

Haig lascia che sia un conto alla rovescia, nelle prime pagine, a scandire l’incedere del tempo e del precipitarsi della condizione mentale di Nora: i comportamenti disfunzionali aumentano, così come le incomprensioni con l’esterno e il peso di antichi attacchi di panico mai spiegati alla famiglia. Il risultato è una spirale depressiva riconoscibile e dolorosa.

Mentre fissava la copertina della rivista – la fotografia di un buco nero – si rese conto di essere esattamente la stessa cosa. Un buco nero. Una stella morente, che implodeva su se stessa.

L’idea del collasso di Nora su sé stessa presenta subito un quadro preciso della situazione. Il nuovo linguaggio scelto da Haig cede alla metafora, ma la usa per una ragione precisa: descrivere il collasso di una mente soffocata dai pensieri e dai rimpianti.

«Tutti abbiamo qualche problema di testa» le dicono quando Nora cerca di esternare le sue difficoltà, un errore di comunicazione comune e presente nelle relazioni di chiunque, persino nei social network in cui sotto l’apparente strato di consapevolezza giace ancora la tendenza ad invalidare le battaglie interiori altrui. Nelle prime trenta pagine di questa avventura fantastica, Haig mette nero su bianco tutto quello che non va nel dialogo sulla salute mentale.

La biblioteca è il fulcro della favola, ma il ritratto di Nora e delle sue difficoltà entrano già in risonanza con molti sintomi della depressione, dell’ansia, del panico patologico. Il problema di Nora, le dicono, è la «paura della vita» e come dominare questa paura è un po’ la questione nodale di molte vite contemporanee. «Non era fatta per quella vita» è l’altra convinzione molto comune ed estremamente difficile da articolare, perché richiede una capacità di autoanalisi che è impossibile acquisire in autonomia nel momento del dolore. Haig, però, riesce a dimostrare che il linguaggio lineare delle sue storie fantastiche può diventare diventare un veicolo moderno e sicuro che renda quotidiano il dialogo sulla salute mentale. Il “male oscuro”, così come amano chiamare la depressione da tempi immemori, si scompone in frasi, sintomi chiari, azioni, pensieri e si spoglia di una componente pesantissima: la vergogna. Nel mondo letterario di Matt Haig è possibile ritrovare i propri sintomi nelle vite altrui e scardinare la convinzione della solitudine.

L’esplorazione dei rimpianti di Nora è l’altro punto nevralgico del romanzo. Nella biblioteca Nora è sospesa tra la vita e la morte, incontra una figura significativa del suo passato che la guida nelle scelte e affronta le prime vite alternative con l’entusiasmo e la convinzione che la sua esistenza di base, la «vita originaria», sia completamente sbagliata. E questo pensiero solletica anche coloro che leggono, vittime costanti del pensiero disfunzionale: c’è sempre una vita migliore irrimediabilmente perduta. L’insegnamento di Haig è profondamente ottimista, forse anche troppo se letto superficialmente: non esistono scelte sbagliate in sé e il passato su cui si rimugina non si rivela mai una soluzione dell’infelicità. La ricerca della felicità di Nora incontrerà molti ostacoli perché «Talvolta i rimpianti non si basano minimamente sui fatti reali. Talvolta i rimpianti sono solo…[…] Un mucchio di stronzate» e l’idea del successo e dell’errore a cui porre rimedio sono obiettivi illusori che non placano lo spauracchio del fallimento.

In una delle vite alternative Nora ripeterà, ancora, la frase cardine «Ho l’ansia. E non conosco nessun altro modo di pensare» a dimostrazione che poi tutto, rimpianti personali compresi, fanno parte di quel grande meccanismo che l’ansia mette in moto e che Haig mostra con sincerità e mestiere. La descrizione minuziosa del pensiero disfunzionale che Matt Haig è capace di fare è l’elemento più prezioso del romanzo, quello che rimarrà nella mente più a lungo e che innescherà una prospettiva diversa, seppure temporanea, del sé e delle aspettative di una vita.

Quello di Matt Haig, nel romanzo e sui social network ogni giorno, è un attivismo a cui l’Italia è ancora poco abituata, presa ancora dall’antica romanticizzazione di sintomi e malattia, dalla mancanza quasi totale di un sistema di supporto psicologico professionale, affidato interamente alle capacità culturali ed economiche del singolo, e infine dallo stigma dettato dall’ignoranza. Eppure nel magma generale di Millennial che abusano di parole come ansia, depressione e suicidio, spesso inconsapevolmente con termini che innescano reazioni complesse nei soggetti più sensibili, e in una Generazione z in proporzione più preparata e consapevole sui social, il dialogo di Haig spicca per semplicità ed efficacia. La sua Nora non rientra nella banalità del “carattere difficile”, non è una donna “complicata”, ma soffre di attacchi di panico, ha un disturbo d’ansia che accompagna la sua depressione e soprattutto è vittima pensieri suicidi. Il regalo che Haig fa a Nora, ovviamente, è la possibilità di rimediare in extremis, ma a questo anche serve la letteratura, a costruire pensieri alternativi quando è più difficile. Haig spoglia dal manierismo lirico le arzigogolate metafore su ansia, panico e depressione per rendere i sintomi, che lui stesso ha sperimentato, riconoscibili e facilmente intelligibili anche da chi non ha gli strumenti adeguati, quelli della terapia per esempio.

La letteratura e l’attivismo di Haig sono salvifici per alcuni versi: il costante dialogo sulla legittimazione delle emozioni e delle difficoltà vanno ben oltre la sola vicenda di Nora Seed e di tutti i suoi personaggi, ma affrontano quotidianamente battaglie per ampliare il diritto alla cura della propria salute mentale e combattere lo stigma e l’ignoranza endemica sui temi della malattia mentale che i social media hanno amplificato fino a rendere assordante. Questo è salvifico perché il cambio di prospettiva offerto da un tweet può essere cruciale, pur se non risolutivo. Un tweet, un romanzo, una intervista possono aprire spiragli in quel tutto o niente del nostro tempo. Pazzia o normalità, non ci sono sfumature intermedie riconosciute. Haig, invece, racconta come lui stesso ha sperimentato il potere asfissiante del dolore e la difficoltà ad uscire da questo dualismo. «La depressione mi riempiva di false notizie» scrive in un tweet con un linguaggio moderno, diretto e inedito per la sfera psicologica. In una recente intervista con l’attrice e attivista Jameela Jamil dichiara, inoltre: «La salute mentale non è una destinazione, ma un viaggio continuo”» togliendo, così, secoli di polvere e giri di parole dalla conversazione sulla salute mentale e l’idea che si deve guarire per tornare normali, per aggiustarsi. “La biblioteca di mezzanotte” è, in conclusione, una favola fantastica su un «un luogo di rimpianto e possibilità», una esplorazione delle alternative di una vita e l’ordinario e le piccole scelte quotidiane che diventano, miracolosamente, di consolazione. Il lavoro di Matt Haig sulla salute mentale è un punto di partenza di un dialogo che ancora bisogna imparare a fare e che non prescinde dalla accessibilità delle cure e dalla consapevolezza, un tassello necessario nella vita quotidiana di ognuno.