In principio fu Carlo Dionisotti (1908-1998). È stato nella seconda metà del Novecento che si è profilata una crisi del modello storico letterario, per cui studiare la letteratura significava studiare, tout court, storia della letteratura. Nel 1951 Carlo Dionisotti pubblica nella rivista inglese “Italian Studies” un saggio, composto all’indomani della Seconda guerra mondiale, dal titolo Geografia e storia della letteratura italiana. Così s’intitolerà anche un volume di saggi, che uscirà da Einaudi nel 1967 e nel quale confluirà quel contributo. Nel binomio “geografia e storia” il primo termine evidenziava la priorità dell’importanza attribuita dal critico piemontese, ai fini della comprensione dei fenomeni letterari, alla dimensione spaziale e geografica, prima ancora che cronologica e storica. Spiegherà Dionisotti nell’introdurre il libro del 1967: «Sempre avevamo creduto all’unità [...]. Ma sempre anche avevamo dubitato [...] di quella corrispondente storia d’Italia e della letteratura italiana, che era stata prodotta nell’età risorgimentale». In realtà, il problema per Dionisotti non era tanto la storia letteraria in sé, quanto i metodi fino ad allora utilizzati per ricostruirla e narrarla, operazione che veniva condotta attraverso una serrata concatenazione di fatti, autori e opere che muoveva dalla Scuola siciliana per approdare al Romanticismo, con una lettura finalistica. Invece Dionisotti metteva in luce la complessa articolazione del quadro storico geografico della nostra letteratura, nonché i rapporti e gli intrecci tra i diversi centri. All’interno di tale policentrismo, nel corso della storia, ogni città, ogni provincia, ogni regione si sono poste in concorrenza con le altre per l’egemonia linguistica, artistica, culturale, con una fitta rete di scambi che però non ha mai messo in ombra specificità e peculiarità di ognuna. Sul tema torna ora, più di 70 anni dopo Dionisotti, Goffredo Fofi, che si concentra sulla fase post-unitaria della questione in un vivace volumetto dal titolo Le cento città. L’apporto delle regioni alla storia della nostra letteratura dall’Unità a oggi (edizioni e/o, pp. 80, euro 8,00). È un’esplicita dichiarazione d’amore, questa di Fofi, per un Paese «che è stato ed è appassionante per le sue differenze fisiche, storiche, sociali». Fofi parla delle “due capitali”, Roma e Milano, raccontate, spesso da “immigrati”: il friulano Pier Paolo Pasolini o il toscano Aldo Palazzeschi per Roma, il siciliano Elio Vittorini o il toscano Luciano Bianciardi per Milano. Ma per quanto riguarda il presente l’autore sostiene la tesi di una maggiore vitalità delle province rispetto ai centri: «Si è assistito negli ultimi anni e si assiste tuttora a un doppio processo: di omologazione, proposta e imposta dal centro e di resistenza e movimento nelle periferie». Ciò non significa mitizzare la provincia, bensì valorizzarne le risorse: «Non tutto ciò che è provincia è buono: si vedano le mafie e si vedano anche le leghe. La provincia esprime anzi due contrari: omologazione, conformismo e sudditanza contro novità, creazione e proposta. Ma è assai raro che il centro abbia una proposta positiva da affermare, e cerca anzi in ogni modo di controllare e sfruttare, di addomesticare o perfino di uccidere quel che di buono o di nuovo viene dalle periferie». Le cento città d’Italia (espressione ripresa da Carlo Cattaneo) esce in una rinnovata “Piccola Biblioteca Morale” il cui fine – scrive il curatore, lo stesso Fofi, in una nota di presentazione – «è ricominciare a pensare, cercando e trovando lo stimolo necessario a difenderci dalle idee correnti e manipolate, e perfino, come massima ispirazione, lo stimolo ad agire. A non accettare quel che il potere quotidianamente ci impone trovando complici, servi volontari, a milioni».