Nei suoi libri parla di razza, identità, esilio e radici, ineguaglianze, memoria. Senza falsi miti né idealizzazioni affronta tematiche tornate di stringente attualità dopo le recenti proteste che dagli Stati Uniti si sono propagate in tutto il mondo. Ma chi è Maryse Condé, scrittrice antillana a cui si devono iniziative come l’istituzione della giornata per la commemorazione della schiavitù e della sua abolizione?
Nata in Guadalupe nel 1937, ha studiato alla Sorbona e poi è diventata insegnante alla Columbia University ma prima ha viaggiato in Africa alla ricerca di radici volontariamente rimosse dalla famiglia discendente da schiavi africani nelle Antille. Perciò ha vissuto in Guinea, Ghana e Mali ed è lì che ha trovato l’ispirazione per il suo libro più conosciuto, Segu, che racconta le vicende di emancipazione di una famiglia dal regno bambara del 18° secolo all’avanzare dell’Islam fino alla diaspora verso il resto del mondo (e ritorno). Tematiche simili affronta anche La vita perfida che nel 1988 ha vinto il premio Anaïs Nin. Che sia un romanzo, un racconto, un’opera teatrale o un articolo per la stampa, Maryse Condé affronta di petto le questioni del colonialismo, le sue conseguenze e le sue persistenze nel mondo contemporaneo.
In una recente intervista al Guardian ha ammesso che solo da adulta ha trovato coraggio, capacità e forza per osservare il mondo con lo sguardo di una persona colonizzata. I genitori veneravano la Francia come il miglior posto al mondo e non le parlavano di schiavitù o colonialismo da bambina. Eppure proprio in Francia Maryse scopre il pregiudizio: “Le persone mi credevano inferiore perché ero nera. Ho dovuto dimostrare che il colore della pelle non conta – quel che conta è nel tuo cuore e nel tuo cervello.”
Sebbene nei suoi libri spesso rifletta sul passato, attraversando luoghi e epoche storiche molto diversi, è sempre con uno sguardo lucidissimo sul presente che scrive: “Non potrei scrivere qualcosa che non abbia un significato politico.” Fa la stessa cosa nella sua autobiografia La vita senza fard nella quale racconta la vita (e le difficoltà di una donna che cresce da sola 4 figli) fino ai 40 anni, quando trova il coraggio di credere in se stessa e pubblicare il primo libro.
“Quello che io chiamo verità è la ricerca costante dell’espressione di sé più autentica, al di là delle idealizzazioni e dei malintesi. Non è un’impresa facile, è un lavoro di demistificazione, il rifiuto di ciò che è comodo e facile ricordare. Questa ricerca è dolorosa e costa a chi vi si dedica seriamente.”
Ricordare, capire, agire. Solo così il razzismo verrà superato. Maryse è ottimista, crede che le recenti proteste anti-razziste provocheranno un cambiamento, ma ci vorrà ancora tempo. E impegno. La Francia ha negato a lungo il riconoscimento della schiavitù e Maryse Condé si è battuta in prima persona per l’applicazione della Loi Taubira, una legge che solo dal 2001 ammette la tratta degli schiavi africani come un crimine contro l’umanità. C’è ancora molto da fare per smontare pregiudizi che affondano le radici nel 18° secolo quando i neri era considerati essere inferiori con l’avallo della scienza.
Non crede più nel concetto di négritude di Aimé Césaire e la sua esperienza in Africa le ha insegnato che non è la pelle da sola a determinare l’identità. “Mentre vivevo in Africa ho compreso con chiarezza come il colore della pelle non sia l’elemento più importante. È ben altro: devi condividere una cultura, una religione e tradizioni. Altrimenti sei considerato uno straniero.” Oggi si dice più vicina alle posizioni del brasiliano Mario de Andrade che parla di teoria del cannibale. Ispirandosi alla popolazione indigena tupì secondo cui si assimilava la forza del conquistatore cibandosene, lo scrittore elabora la metafora del métissage culturale. Maryse la trasla alla letteratura e si definisce onnivora e cannibalesca. Non a caso ha riscritto in chiave creola proprio il romanzo che da bambina le fece comprendere che voleva fare la scrittrice, Wuthering Heights, con il titolo Windward Heights. Chi glielo aveva prestato l’aveva smontata dicendole che la gente come lei non poteva riuscirci. A Maryse è rimasto il dubbio se intendesse una donna, una nera o una persona proveniente da un paese così lontano e tanto piccolo. Forse tutte e tre. Lei però c’è riuscita e oggi è considerata una delle maggiori esponenti della letteratura post-coloniale conquistando nel 2018 anche il New Academy Prize che quell’anno prese il posto del Nobel non assegnato.