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In gabbia come nel mio romanzo

di Ahmet Altan

Sono seduti su uno scanno alto due metri. Indossano toghe nere con il colletto rosso. Fra poche ore decideranno il mio destino. Li guardo. Non assomigliano alle Parche che recidono il filo della vita. Con le cravatte allentate per la noia, ricordano più i gretti funzionari pubblici di Gogol’. Il loro presidente, seduto al centro, tiene il braccio destro divaricato sullo scanno, come fosse biancheria stesa ad asciugare, giocherella con le dita e guarda le sue dita che giocherellano. Ogni tanto dà un’occhiata al cellulare per leggere i messaggi. Quando uno degli imputati che è sotto processo insieme a noi dice che sta per sottoporsi a un’operazione di bypass cardiaco, il presidente del tribunale avvicina a sé il microfono e dice con voce meccanica: «L’ospedale ci ha informati che non ci sono circostanze mediche che impediscano la sua permanenza in carcere».

È come se le frasi pronunciate dagli imputati e dai loro avvocati lo colpissero sulla fronte, si infrangessero e cadessero in frantumi sullo scanno. Ricordo quello che diceva Elias Canetti di gente del genere: «Sentirsi al sicuro, in pace e in gloria e poi sentire le richieste di una persona con la determinazione di non prestarvi ascolto...può esistere qualcosa di più ignobile?». Ci hanno messi in una gabbia piastrellata con sbarre di ferro sul davanti. Siamo cinque uomini.

Il sesto imputato è separato da noi e portato altrove perché «è una donna». La Corte suprema, dietro appello di mio fratello, ha esaminato le prove contro di noi e ha stabilito che «nessuno può essere arrestato sulla base di prove simili». Questo ha reso i giornalisti sotto processo insieme a noi ottimisti e speranzosi. Io non sono ottimista quanto loro.

Proviamo un sentimento di impotenza, la sensazione di aver perso il diritto di stabilire il nostro futuro. I minuti si trascinano lentamente, mentre aspetti in una gabbia di sentire se la sentenza sarà o non sarà l’ergastolo. Da qualche parte, tre uomini stanno decidendo il mio destino. Forse hanno già preso la loro decisione. Ricordo un passaggio del mio romanzo L’amore è come la ferita di una spada. Questo è quello che scrivevo a proposito di un personaggio che sta seduto in una stanza aspettando il verdetto, dopo il suo arresto: «L’intervallo tra il momento in cui il destino di una persona è cambiato e il momento in cui quella persona se n’è resa conto gli sembrava l’aspetto più tragico e spaventoso della vita. Il futuro diventava chiaro, ma la persona continuava ad aspettare un altro futuro, con altre aspettative e sogni, senza rendersi conto che il futuro era stato già deciso. L’ignoranza durante quell’attesa era orribile, e per lui era la debolezza più grande dell’umanità».

Le frasi che ricordo mi fanno tremare. Ho scritto anni fa quello che sto vivendo in questo momento. Ora sto vivendo quello che avevo scritto nel mio romanzo. Un romanziere che vive il suo romanzo. Una frase echeggia dentro di me e mi fa fremere di orrore, come il coro di una messa vudù presenziata da stregoni mascherati: la mia vita imita il mio romanzo.

Anni fa, mentre vagavo in quel territorio senza confini, enigmatico e indistinto dove la letteratura entra in contatto con la vita, avevo incontrato il mio destino ma non l’avevo riconosciuto; ne scrivevo pensando che appartenesse a qualcun altro. Il destino di cui scrivevo apparentemente era il mio. Ora sono agli arresti, esattamente come il protagonista che creai anni fa. Sto aspettando la decisione che deciderà il mio futuro, esattamente come lui aspettava la sua. Come un oracolo maledetto, ho previsto il mio futuro anni fa senza sapere che si trattava del mio. Le streghe di Macbeth, a quanto pare, scorrazzano dentro di me. La decisione è stata presa.

I giudici vengono e indossano le toghe nere che avevano lasciato sulle sedie. Il presidente, quello con gli occhi morti, acquosi, legge la decisione: «Ergastolo senza sconto di pena». Trascorreremo il resto della nostra vita soli in una cella lunga tre metri e larga altrettanto. Ci porteranno fuori a vedere la luce del sole solo un’ora al giorno. Non saremo mai graziati e moriremo in una cella di prigione. Questa è la decisione. Sono stato condannato come il protagonista del mio romanzo. Ho scritto il mio stesso futuro. Tendo le mani. Mi ammanettano. Non rivedrò mai più il mondo. Non rivedrò mai più un cielo che non sia delimitato dalle pareti di un cortile. Sto andando nell’Ade. Entro nell’oscurità come un dio che ha scritto il suo stesso destino. Io e il mio protagonista scompariamo nell’oscurità insieme.

(Traduzione di Fabio Galimberti)