In un mondo ideaJe ovvero quello che siamo tutti chiamati a costruire senza scuse -, a una donna basterebbe uscire di casa per lasciarsi alle spalle una storia coniugale di violenza.
Il vicino sarebbe ben attento a notare il livido sotto l'occhio senza credere alla solita caduta dalle scale, mentre un collega di lavoro sarebbe già al telefono con la polizia e gli avvocati. Nel frattempo, altre donne sarebbero già diventate sue alleate, pronte ad offrire alla malcapitata vestiti puliti, un tetto, un numero di cellulare nuovo e pure un profilo Linkedin per ritrovare un impiego e l'indipendenza economica.
Ma quanto di tutto questo accade per davvero, al di là dei tweet di rito il 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne?
Denunciare è fondamentale, certamente. Ma prima, dopo e durante dovrebbe esserci anche tutto il resto, come mette bene in chiaro Meena Kandasamy nel suo sconcertante, formidabile romanzo, Ogni volta che ti picchio, pubblicato da Edizioni E/O con la traduzione di Silvia Montis.
Perché il male è ovunque e senza ragione, pronto a strangolare anche donne colte e indipendenti che non hanno nulla a che fare con la piccola fiammiferaia indifesa dello stereotipo e che però si ritrovano a constatare come la protagonista del romanzo: «nessuno ha il minimo sentore di quanto io mi senta precariamente sola».
Sono tanti i luoghi comuni che Ogni volta che ti picchio smonta con lucidità e poesia.
Innanzitutto la protagonista, attivista e scrittrice cresciuta nel milieu borghese di una metropoli indiana, ha sempre condotto una vita normale, senza mai sfiorare il degrado nemmeno da lontano: «niente fame, niente orfanotrofi, niente crisi umanitarie, niente ISIS, niente fidanzati jihadisti, niente mariti Tigri Tamil, niente matrimoni da sposa bambina, niente tentativi di suicidio mezzi riusciti, niente sviluppi intellettuali precoci». Bellezza nella media, non le sono mancate avventure di una notte e un grande amore naufragato; la sua vita sessuale e sentimentale è più emancipata, come il suo raziocinio.
Anche il marito, sposato con convinzione senza pensarci su troppo, è tutt'altro che un balordo, ma uno stimato docente universitario, sedicente ex guerriero maoista innamorato intellettualmente della rivoluzione. Eppure, la violenza psicologica e le botte sono lì ad attenderla come una scandalosa sorpresa appena varcata la soglia di casa.
«Quando cerco di ricordare la prima volta in cui mio marito mi ha picchiata ci sono solo lacrime calde come vetro fuso e un costante senso di paura per le tante volte in cui è accaduto di nuovo». Se i lividi sono sempre squallidi qualunque sia la ragione per cui vengono inflitti, in questa storia l'uomo non picchia la moglie in preda al delirio di alcol e droga. Le botte arrivano più subdole, sempre in modo razionale, dopo stupide accuse o recriminazioni volte a sminuire la moglie: «a volte i pomi della discordia di mio marito sono talmente inconsistenti che mi viene da chiedermi se ogni accusa non sia soltanto un pretesto per picchiarmi». Tra tutti è un rimprovero a suonare sconvolgente: quello di essere troppo «borghese». Come se nascere in un contesto familiare generoso in termini di opportunità e di affetti sia una colpa che la donna deve lavare via con pugni in faccia e calci nella schiena. «Ogni volta che ti picchio / il compagno Lenin piange,» scrive il marito in una delle sue poesie inneggianti al comunismo, che farebbero quasi ridere per quanto sono deliranti se non fossero tanto crudeli.
Chi fortunatamente non ha mai sperimentato lo squallore potrebbe pensare che manipolare l'identità di una persona sia un'operazione lunga, possibile soltanto per soggetti già fragili e suggestionabili. Kandasamy racconta come in realtà ci voglia molto poco a cancellare una persona - ancora meno per cancellare una donna.
Prima sono i capelli, poi i vestiti; poi il lavoro e le relazioni sociali. Il telefono della protagonista viene sottratto, gli account sui social network chiusi, i rapporti con amici e genitori tagliati. «Dovrei essere uno spazio vuoto. Uno spazio dal quale è stato cancellato tutto ciò che riflette la mia personalità, Come una casa dopo una rapina». Persino la sua lingua materna le viene tolta e le parole
che conosce nella lingua locale di Mangalore, dove si è trasferita con il marito, sono le dieci necessarie a una moglie segregata in casa a comprare il letto.
Infine, quando la protagonista riesce a fuggire e a tornare distrutta dai suoi genitori, anche qui la sua storia sembra essere impronunciabile: la madre fatica ad articolare la parola violenza nei racconti ai vicini, si perde in aneddoti sui parassiti che la figlia avrebbe avuto in testa al suo ritorno e usi suoi piedi rovinati. Ecco l'urgenza di narrare che ha portato Meena Kandasamy a scrivere Ogni volta che ti picchio, «prima che la mia storia diventi una nota a piè di pagina in un racconto su un'infestazione da pidocchi».