Il primo aggettivo che mi viene in mente quando penso a come descrivere la prosa di Elena Ferrante è sanguigna. Seguono, poi, tutta un’altra sfilza di parole: feroce, violenta, spietata. I suoi libri sono sempre pozzi oscuri di dolore sordido e delizioso. I suoi personaggi rimangono intrappolati nella trama viscosa dei loro corpi e dei loro rioni e a poco a poco prendono coscienza della grettezza e della volgarità che accompagna tutti i gesti umani, mentre provano a liberarsi, ad ascendere. Ne La vita bugiarda degli adulti, romanzo uscito per i tipi di E/O lo scorso novembre, i temi cari alla scrittrice partenopea sono presenti tutti e si rovesciano sul lettore con temeraria veemenza.
La protagonista è Giovanna, una ragazzina figlia di buona famiglia la quale, un giorno, origlia una conversazione dei suoi amatissimi genitori. Il padre dice alla madre che sua figlia sta diventando brutta: Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. […] Tutto […] è rimasto fermo. Io invece sono scivolata e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento.
Sono le più insignificanti vicende del quotidiano, i piccoli incidenti di percorso, a scatenare uno smottamento nelle menti dei personaggi della Ferrante. Un espediente che la scrittrice aveva già magistralmente messo al servizio del suo capolavoro, la saga de L’amica geniale. In Storia del nuovo cognome, infatti, veniva introdotto per bocca di Lila Cerullo il concetto di smarginatura. La ragazza, osservando alla luce intermittente dei fuochi d’artificio della notte di Capodanno i volti degli uomini della sua vita deformarsi in smorfie animalesche, provava una strana sensazione che l’avrebbe accompagnata per sempre: la fuoriuscita dal margine prestabilito della realtà convenzionale, la perdita di confine che definisce le forme.
Il concetto di smarginatura sta a Elena Ferrante come quello di epifania sta a James Joyce: una rivelazione che irrompe nelle banalità routinarie e in un attimo cambia tutto, rende impossibile tornare indietro. La smarginatura, però, aggiunge al concetto di epifania un’interessante messa in discussione del reale. È un fenomeno che non ha luogo solo nella formulazione del pensiero, ma è profondamente legato al senso corporeo della vista. I personaggi smarginati della Ferrante non riescono ad aggrapparsi ai punti fermi del mondo tangibile e si perdono in una percezione alterata di se stessi e di ciò che li circonda. Per Giovanna, la smarginatura è proprio messa in discussione dell’immagine di sé. Si scruta negli specchi, cerca nel proprio corpo le tracce di una bruttezza congenita che la pubertà e le parole del genitore le stanno modellando addosso. Suo padre l’ha paragonata a zia Vittoria, la sorella rinnegata di cui a nessuno piace parlare. Giovanna spinge la sua indagine verso il passato della sua famiglia e in una vecchia scatola di fotografie scopre le istantanee che ritraggono il padre con Vittoria accuratamente censurate:
Mi ci volle poco a capire che quel rettangolo nero tracciato col pennarello, precisissimo, era un lavoro tanto accanito quanto segreto che aveva fatto lui. Me lo immaginai mentre chiudeva col righello che aveva sulla scrivania una porzione di foto dentro quella figura geometrica e poi ci passava accuratamente sopra il pennarello attento a non uscire dai margini prefissati. Che lavoro paziente, non ebbi dubbi: i rettangoli erano cancellature e sotto quel nero c’era zia Vittoria. […] Due bare dentro le quali […] aveva chiuso il corpo di sua sorella e di chissà chi altro.
Quei rettangoli neri somiglianti a bare concretizzano il mistero e la paura di Giovanna che i genitori abbiano altri volti e altre voci, oltre a quelle che sfoggiano in sua presenza. La protagonista attribuisce alla ricerca della verità la sua opportunità di ricucire i propri margini. Tuttavia, quella che parte come una storia di crescita, di passaggio dall’infanzia all’età adulta, è in realtà una spirale d’involuzione e discesa negli abissi del disprezzo di sé, dell’abbandono al livore nei confronti di chi aveva un tempo amato.
Altro tema caro alla Ferrante, che ne La vita bugiarda degli adulti riveste un ruolo di primaria importanza, è la contrapposizione di due Napoli: quella del benessere e quella del popolo. Anche la città, come i personaggi del romanzo, è bifronte: uno specchio d’acqua che riveli, increspandosi, sfumature alterne di bellezza e degrado. La Napoli patinata del Vomero e di Posillipo è incantevole a vedersi, eppure i personaggi che la abitano si macchiano di menzogne e sozzure tal quale ai napoletani della periferia di Capodichino i quali, però, sono almeno privi delle ipocrisie di facciata.
Man mano che il mondo dell’infanzia di Giovanna precipita sotto il peso delle bugie, man mano che i contorni della sua vita si sfocano sempre di più, la protagonista si ribella. Smette di provare a somigliare a qualcuno, smette di cercarsi. Ritaglia per sé un rettangolo nero sulla fotografia della sua vita. In questo sta il suo cambiamento. L’adolescenza non è forse la prima scintilla di consapevolezza che la vita è possibile solo rinunciando a una definizione di verità sempre netta, incapace di contraddirsi? Solo rinunciando a un pezzetto di sé alla volta? L’adolescente, per sopravvivere, soffoca la bambina e l’adulta sigilla con il sangue la morte dell’adolescente. Tutto il romanzo è una lotta per sopravvivere contro il proprio io.
La vita bugiarda degli adulti, però, non è la miglior fatica di Elena Ferrante. Nei primi capitoli si inciampa di frequente nel paragone con la saga de L’amica geniale e la conclusione brusca e sbrigativa lascia il lettore a fare i conti con un senso di incompiutezza che lascia l’amaro in bocca. Resta, comunque, l’assoluto pregio di una scrittura godibilissima, scorrevole e cattiva, che rende impossibile resistere alla agrodolce voluttà della lettura.
Non a caso, a trovare irresistibile la capacità narrativa di Ferrante è anche il colosso dell’intrattenimento Netflix che ha appena annunciato di stare producendo una serie TV tratta proprio dal volume in oggetto. Il racconto dell’adolescenza smarginata di Giovanna si presterebbe particolarmente bene all’adattamento in miniserie, mentre una formula studiata per funzionare su più stagioni rischierebbe di privare la storia dei suoi contorni sfumati, snaturandola. In questo senso, l’auspicio è che la scelta di Netflix abbia a che fare con il desiderio di portare sullo schermo l’opera di questa grande scrittrice, puntando solo parzialmente alla concorrenza con l’acclamatissima produzione RAI/HBO de L’amica geniale.