“Niente per lei” è il romanzo che segna l’esordio letterario della copywriter romana Laura Mancini. Un esordio che persuade e fa intravedere, fin da subito, un’altra scrittrice di talento da inserire agilmente nel panorama della buona narrativa italiana. “Niente per lei” è una storia per lo più al femminile: gli uomini sono e restano figure in penombra o appena tratteggiate, sfuggenti per carattere o solo per tare di coscienza. La voce a cui l’autrice si affida appartiene a Tullia la quale, immersa in quello che somiglia molto a un ininterrotto flusso di coscienza, ci fa crescere insieme a lei nel corso di un testo che può essere serenamente classificato come romanzo di formazione.
Ogni capitolo di “Niente per lei” è introdotto da una data, un titolo e un luogo. Gli anni si susseguono dal 1943 al 1990 mentre i luoghi sono connessi a quartieri o borgate di Roma. Perché, vale la pena specificarlo fin da subito, oltre a Tullia, in questo libro, c’è un’altra protagonista ed è Roma. Una Roma infranta come quella di San Lorenzo sotto le bombe, ma anche la Roma rimessa a nuovo dei quartieri bene come Prati o San Pietro, la Roma sfilacciata del Quadraro o quella caotica e sfrontata di Trastevere. La Tullia di appena sei anni, rifugiata in un ricovero durante i bombardamenti del 1943, è una bambina che sente la tristezza premere dentro di sé, una bambina che capisce di essere diversa, incompresa o incomprensibile. “Non volendo assecondare la tristezza che mi montava dietro lo sterno, decisi di esplorare quello spazio di misteri e dispiaceri senza farmi notare. Avrei detto “buco” tra me e me ogni volta che ne avessi trovato uno lungo la parete verde, un colore strano, troppo diverso dal miele e dallo zafferano delle mura di casa e troppo simile all’erba folta del Verano dove riposava la nonna. Sapevo bene che se avessi azzardato una simile considerazione ad alta voce – avevo già un concetto mio di ciò che è giusto o sbagliato, a soli sei anni – sarei stata sgridata, forse anche picchiata“.
Tullia è la figlia più grande. Ha dei fratelli a cui badare, un padre, Giuseppe, che ama profondamente e una madre, Rosa, che per lei sarà per sempre una sfida, una minaccia, un mistero e, forse, persino una nemica. Rosa è scorbutica e incostante, irrequieta e irascibile, anaffettiva e durissima. “Noi tutti eravamo cresciuti senza poterci affezionare ai suoi sorrisi. Lei non sorrideva mai. A volte, quando lo faceva, era per pura agitazione o per sarcasmo nei confronti della vita, non si sarebbe potuto dire con certezza e nessuno voleva tirare a indovinare. I suoi rari momenti d’ilarità somigliavano molto alle sue esplosioni di rabbia. Lasciavano tutti storditi da un gas incomprensibile, incerti tra l’euforia della festa e la fretta di allontanarsi prima del crollo“. La famiglia di Tullia appartiene a quel sottoproletariato capitolino che, dagli anni della guerra in poi, ha cercato di sfangarla come ha potuto, raggranellando spiccioli e facendo ogni tipo di mestiere.
Anche Tullia, seppur bambina, viene mandata a lavorare senza troppi ripensamenti. Deve guadagnarsi il pane e lo fa sentendosi addosso le vessazioni e i rimbrotti acidi di sua madre che conta ogni lira che porta a casa. Tullia cresce e con lei cresce anche Roma, la Roma degli anni del boom economico e della bella vita. Tullia rimane ai margini facendo lavori umili e cercando di tirare avanti come può. Diventa persino madre senza curarsi di avere accanto a sé l’uomo che l’ha messa incinta. L’impulso di chi legge è quello di sperare che Tullia compia un grande salto, una sorta di evento miracoloso che le permetta di ottenere un riscatto sociale e umano che, infilandosi nella trama come un prodigio, possa salvarla o tramutarla in un’eroina in piena regola.
In verità non ci sono miracoli né prodigi né altre grazie nella vita di Tullia. C’è la normalità ordinaria di una vita qualsiasi. C’è la solitudine ostinata di una donna che ha imparato a diffidare persino del suo stesso sangue, c’è il silenzio e la meticolosità di chi lavora per sopravvivere. Si scava un piccolo rifugio nella bellezza nascosta delle parole, Tullia. Non ha potuto terminare gli studi ma in lei è rimasta la passione per ciò che alcune parole, più preziose e rare, possono tracciare e seminare dentro di lei o negli occhi di chi le sa capire. “Analizzavo ogni rigo come se potesse offrirmi una ricompensa definitiva per quell’infanzia troppo breve. Qualsiasi testo mi capitasse a tiro elevava la spontanea curiosità della principiante al piano della mania. Ingoiavo avidamente il bugiardino del farmaco per l’asma, le insegne dei negozi, i titoli dei giornali affissi con le mollette sulle edicole, i cartelloni appesi alle reti dei cantieri che bucherellavano il volto della città, strana luna di calcestruzzo costellata di messaggi nascosti“.
Un amore per le parole che Tullia tiene per sé perché sa che nessuno di quelli che la circondano saprebbe capirlo, anzi lo userebbe contro di lei per denigrarla, deriderla e ferirla. Ma le parole le vengono bene, ne conosce di sofisticate e bellissime. Laura Mancini ha quindi saputo giustificare così la “voce” composita e tutt’altro che rudimentale di Tullia. I suoi pensieri, i suoi ricordi, la sua vita sono un susseguirsi di costrutti perfettamente e armoniosamente organizzati: una Tullia senza la passione per le parole e per i libri non avrebbe potuto esprimersi in maniera così articolata. L’autrice e il suo personaggio, narrativamente parlando, si sono mescolate e trovate per diventare il cuore vivido e palpitante di “Niente per lei”.