L’ultimo lavoro del francese Ferrari Singolare intreccio “corso” fra amore, arte, immagine e religione.
Un romanzo a tre poli, con un indubbio substrato religioso. Questo A sua immagine dell’acclamato romanziere francese Jérôme Ferrari (già vincitore del prestigioso Premio Goncourt nel 2013 con Il sermone sulla caduta di Roma) è una miscela strana e alternativa di trama e personaggi. Costruito intorno alla vicenda umana, professionale e sentimentale, di Antonia, una ragazza della Corsica appassionata di fotografia, svolge però molto delle sue pagine secondo il punto di vista dello zio materno di Antonia, il suo padrino, un prete (che nel romanzo resta senza nome). Terzo incomodo, terzo protagonista è la fotografia, la passione di Antonia, che la porterà dalle feste paesane della sua isola alla guerra sanguinosissima dell’ex Yugoslavia. In mezzo, il legame affettivo di Antonia con Pascal B. prima, e poi con Simon T., due compaesani, entrambi membri di un gruppo indipendentista corso (il romanzo è ambientato nell’isola, ma con scarne coordinate geografiche, quasi a simboleggiare la portata simbolica e metafisica della vicenda narrata), poi frantumatosi in opposte fazione, rottura che porta a fatti di sangue.
Un romanzo, quello di Ferrari, costruito a continui flash back su una dorsale narrativa che è la celebrazione delle esequie di Antonia, in cui lo svolgersi dell’azione liturgica fa da contraltare al flusso di ricordi del celebrante, lo zio prete, e delle vicende passate dei personaggi.
Ed è proprio la riflessione sul valore della fotografia e su quanto uno scatto iconografico può trasferire della vita e del suo senso profondo, il fiume carsico di significato che la narrazione di Ferrari trasferisce al lettore.
Alla giovane Antonia un più anziano collega (da una trentina d’anni attivo per il giornale regionale per la quale la ragazza scattava) insegna così la passione della testimonianza della propria terra attraverso la macchina fotografica: «Da un pezzo si era rassegnato a non aspettarsi niente dal proprio mestiere. In compenso tutti i weekend percorreva l’isola in lungo e in largo alla ricerca di ovili abbandonati, ne aveva fotografati a centinaia, muri di granito, di scisto o di gesso coperti di rovi con i tetti sfondati lungo sentieri di cui nessuno ricordava l’esistenza, voleva farne un libro, stava cercando un editore».
Di fronte a questa passione senza oggetto «Antonia non capiva come potesse sottoporsi a lunghe scarpinate in montagna per fotografare mucchi di pietre abbandonate in luoghi bui e desolati». Ma ecco la magia che nasconde l’arte della fotografia, anche quella che ritrae luoghi dimenticati dai più e mucchi di sassi che un tempo, ordinati, servivano a qualcosa: «Quando lui le mostrò il proprio lavoro fu colpita dalla potenza estetica che emanava da quel meticoloso inventario di ruderi che non parlava né del passato né della natura, ma solo dell’ineluttabile disfatta degli uomini».
La riflessione che Ferrari fa compiere ai suoi personaggi sul valore della fotografia (e anche sul valore di non poter riprodurre quello che è stato scattato – vedi le annotazioni sugli scatti durante il conflitto nei Balcani) investe inesorabilmente anche il cristianesimo, visto che proprio uno dei punti di vista del romanzo è quello dello zio prete di Antonia: «Se all’epoca di Gesù fosse esistita la fotografia – pensa il sacerdote, e con lui l’autore – il cristianesimo non si sarebbe sviluppato, o tutt’al più sarebbe stato un’atroce religione della disperazione». Mentre invece Ferrari riconosce all’iconografia tradizionale cristiana un merito: «Le più realistiche rappresentazioni pittoriche della crocifissione lasciano sempre intravedere tra le ferite della carne martoriata, come in negativo, il miracolo della risurrezione».