Del drammaturgo scrittore saggista traduttore regista sceneggiatore Éric-Emmanuel Schmitt colpisce, da sempre, la capacità di addentrarsi e scavare nel dolore, nella tragedia, nelle passioni, nei sentimenti più profondi, e di narrarli con un lacerante anelito, se non alla felicità, per lo meno alla serenità. Non c’è buonismo né tantomeno superficialità, semmai leggerezza anche là dove di leggero non si respira neppure l’aria. Era così il suo Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, sono così i numerosi titoli pubblicati per lo più dalle edizioni e/o.
E adesso la purezza semplice delle parole di Joseph, bambino sopravvissuto alle retate naziste, alla fame e alla guerra accompagnano ogni pagina de Il figlio di Noè (traduzione di Alberto Bracci Testasecca), “favola” più che reale ambientata nel Belgio occupato e poi appena liberato. La casa della sopravvivenza è Villa Gialla, rifugio per piccoli ebrei, orfani, o semplicemente rifugiati, accuditi da Padre Pons e dai seminaristi. Un prete raro che non solamente salva vite appena sbocciate, ma ne preserva la cultura e le tradizioni. Infatti nelle cripte sotto la chiesa nasconde una sorta di simil-sinagoga con un rotolo della Torah, libri di preghiera, candelabri, musiche ebraiche e yiddish. Padre Pons lancia insomma la grande sfida – una sfida che a tutt’oggi è/sarebbe ancora valida in difesa degli ultimi e dei perseguitati: “Joseph, tu farai finta di essere cristiano e io farò finta di essere ebreo”. Ci riuscirà? Ci riusciremo?