“Gli Dèi sono presenti / perché gli dèi sono dentro di noi”. Basta uscire di casa o prendere un autobus per rendersene conto. Chiunque con le sue piccole, ripetute azioni quotidiane, dimostra di essere un contemporaneo esempio di divinità greca. Chi scommette sul cavallo vincente, chi siede ad una scrivania annoiato portando avanti compiti alienanti in maniera dignitosa, chi si abbandona a rapporti sessuali pericolosi con sconosciuti all’interno dei bagni pubblici, chi si imbambola davanti ad una delle tante e inutili pubblicità in televisione. Tutti noi, quindi, facciamo parte di quel moderno gruppo di dei, contemporanei, nuovi di zecca, che non hanno bisogno di oracoli per far comprendere le proprie necessità. All’interno di questa miriade di divinità di tutti i giorni, in due case tra le mille che affollano un qualsiasi quartiere della periferia di Londra, ci sono due famiglie, dirimpettaie, che vivono le loro giornate come sempre, con una birra scura e il pane imburrato. Il presente è infestato di una quotidianità pesante che fa sembrare le foto incorniciate pallidi ricordi di un passato meraviglioso. Tra le due case, in cui regna il vuoto, c’è un legame creato apposta per riempirlo. Un legame fatto di bugie e sotterfugi, di segreti e rossetti sul taxi, più semplicemente di infedeltà. Il “bosco sotto la pioggia” che esiste nel corpo di una di loro sembra placare il senso di disagio solo quando l’intreccio inaspettato e colpevole delle loro esistenze viene sciolto in un’anonima camera di albergo…
Kate Tempest scrive un poema che, purtroppo, perde buona parte della sua forza lirica nella versione cartacea. Per rendersene conto, basta vedere sul canale YouTube del Battersea Arts Centre di Londra la versione recitata, o meglio “rappata”, della stessa autrice. Lo dice lei stessa all’inizio che “è stato scritto per essere letto ad alta voce”. In effetti, la Tempest è nota per i suoi reading a metà strada tra una sessione di rap e teatro di strada e ci tiene sempre a sottolineare di essere tanto drammaturga quanto rapper. Quindi, per godere al meglio di quello che scrive il lettore deve farsi spettatore, ascoltatore, perché la lettura non si dimostra a tutti gli effetti la modalità giusta per valorizzare il testo. Non esiste una metrica predefinita, non ci sono rime, parole come “scopare” o “cesso” appaiono nel discorso tanto quanto “capitombolo”. Le parole sono fatte per essere urlate, vomitate quasi. L’elenco iniziale di divinità quotidiane ne è l’esempio: “Gli dèi sono nelle agenzie di scommesse / gli dèi sono al bar / gli dèì fumano sul retro / gli dèi sono sul posto di lavoro / gli dèi sono stufi di dare di più e ricevere di meno […]”. L’Olimpo moderno è costellato di esseri incollati ai propri profili Facebook e spesso, a voler sottolineare questo forte senso di estraniamento emotivo, sembra quasi che a descrivere le relazioni siano post o stati dei social. Sicuramente per molti può rappresentare una novità nell’ambito della poesia inglese degli ultimi anni (riconosciuta anche con il Premio Ted Hughes proprio per Migliore Nuova opera poetica nel 2012, ndR), ma nel complesso ricorda molto il movimento – di rottura sì, per la sua epoca – della Beat generation.