5 anni sono passati dal 7 Gennaio 2015, 5 anni dall’attentato terroristico all’interno della redazione Charlie Hebdo. Dopo 5 anni esce in Italia il libro di chi, da quell’attentato, ne è uscito apparentemente vivo anche se, letteralmente, a pezzi. Philippe Lançon intitola appunto così il suo libro biografico “Le Lambeau” in francese, il lembo, ma anche brandello. Il brandello è infatti quello che ha al posto della faccia e su mani e braccia il giornalista, a seguito dell’attacco con fucile dei due uomini “dalle gambe nere” che fanno irruzione nel giornale. L’immagine rende perfettamente l’idea della violenza, della forza e della grandezza distruttiva di ciò che è stato. Non solo la sua faccia, ma tutta la sua esistenza viene distrutta e ridotta a pezzi.
Azzecata la traduzione del titolo in italiano: La traversata. Quello che Lançon ci narra è infatti un passaggio. Un passaggio fisico ma anche e soprattutto psichico, una traversata da un prima, che non ritornerà, a un dopo, che è in via di costruzione. Ma intanto c’è il presente, quello del tempo narrativo, i mesi trascorsi dal giornalista francese nei letti di ospedale come ricoverato e poi assistito in via di riabilitazione. Un limbo nuovo in cui si agitano personaggi sconosciuti che diventano famigliari per necessità: la chirurga, le infermiere, il capo infermiere, gli agenti di guardia. Un limbo ospedaliero lungo 9 mesi in cui Philippe verrà sottoposto a 15 operazioni e ad un training mentale riabilitativo non semplice.
Il libro non presenta digressioni sul terrorismo islamico, ponendosi in qualche modo aldilà di connotazioni politiche dell’attentato stesso, non mira a raggiungere conclusioni o ad aprire pretesti di stampo polemico, tutt’altro, è la ricca e dura testimonianza del ricovero di un uomo la cui vita è interamente da ricostruire, a partire dalla sua faccia.
La biografia di un intellettuale che rinasce paziente e torna bambino: dipendente dal personale sanitario, dal fratello e dagli amici, comunica grazie a una lavagnetta e a un pennarello. È bello constatare che, se il fisico lo abbandona, il suo animo rimane saldo: diventa la mascotte dell’ospedale, dispensa consigli letterari e musicali tra i dipendenti dei reparti, regala libri e rimane fedele alla sua persona, mantenendo viva la sua ironia.
Il ricordo dell’attentato è un’immagine costante e vivida, lo spezzone di un film che viene rivisto e rivissuto più volte e che continua a far male. Il ricordo degli amici scomparsi doloroso. Abbastanza adulto per non cedere troppo al senso di colpa per essere sopravvissuto, umano al punto da desiderare di tornare a mangiare.
Emozionante il pezzo in cui, per la prima volta dopo mesi, assaggia del cibo dalla bocca: è solo uno yogurt bianco con un po’ di zucchero, ma ha il sapore di qualcosa di indimenticabile, di salvifico. Commovente il suo ritorno alla vita, passo dopo passo, operazione dopo operazione.
Lançon narra con grande onestà il rapporto con la sua fidanzata Gabriela, che, da “regina” quale si sentiva quando stava con lui, viene detronizzata e si sente messa da parte. Gelosa addirittura della tanto da lui acclamata chirurga Chloè, la donna che lo cuce e lo ricuce, Gabriela sente di star perdendo il suo compagno e il loro rapporto declina progressivamente fino ad una rottura momentanea. L’attentato costringe i protagonisti a un riassetto dei piani, a una riconsiderazione delle priorità e delle prospettive. Non è una scelta voluta, ma obbligata: la vita non può più assomigliare a quella che era ed è sempre stata, i suoi contorni vanno ridefiniti.
Questa ricostruzione, che avviene con una difficoltà tangibile, attraverso una vera e propria riabilitazione, è dolorosa, a tratti disperata ma al contempo grandiosa, enorme, priva di retorica ma intrisa di stile giornalistico, al confine tra Robison Crusoe e Proust, autori le cui opere Lançon cita più volte e che rilegge per trovare quella forza e quell’ispirazione tipiche del passato.
Grazie ad essa, Lançon scopre o forse riscopre la funzione stessa del giornalismo e, da lì, della scrittura, leggiamo:
“Scrivere è la maniera migliore per uscire da se stessi, anche se non si parla d’altro. Ne conseguiva che la separazione tra finzione e non finzione era vana, dato che tutto era finzione, tutto era racconto: la scelta dei fatti, l’inquadratura delle scene, la scrittura, la composizione. La cosa importante era la sensazione di verità e di libertà date a chi scriveva e a chi leggeva. Quando scrivevo a letto con tre dita, poi con cinque, poi con sette, con la mandibola bucata e poi ricostruita, con la possibilità o meno di parlare, non ero il paziente che descrivevo,ero un uomo che svelava quel paziente osservandolo e ne raccontava la storia con una benevolenza e un piacere che sperava di condividere.”
Verità e libertà, i due caposaldi del suo lavoro giornalistico, così come da sempre era stato nel giornale satirico Charlie Hebdo. Ma non solo: troviamo anche benevolenza e piacere, quindi l’attività della scrittura descritta nella sua funzione più personale e potente, quella terapeutica.
Un racconto eccezionale, un memoir vivido dalle immagini forti, che non pretende di insegnare, ma raccontare.
Raccontare con stile, libertà ed intelligenza, come dovrebbe fare il giornalismo.