Con Arenaria (edizioni e/o) PaoloTeobaldi dedica alla nipotina Julie un testo che celebra le rive del San Bartolo, tratto di costa da rievocare con la grazia delle memorie felici, attraverso una carrellata di personaggi e fatti che restituiscono la feroce genuinità di un tempo andato. Con precisione linguistica e coraggiosa attenzione allo stile, l’autore racconta un mondo dai pochi cantori, ostinatamente tenuto in vita da una memoria che salva e disseppellisce.
Coronamento ideale della sua sperimentazione attraverso la lingua, Arenaria è un testo atipico nel panorama letterario odierno. Il lettore è stupito dal profluviodi termini inusitati nonché dal moto ondivago della trama, sorta di patchwork aneddotico-memoriale costruito a partire dalla lingua e dalle suggestioni che essa suscita. Quale idea di letteratura è alla base di tale scelta?
L’idea di Letteratura che mi accompagna dalle mie prime prove di scrittura in fondo è sempre la stessa. Ho sempre pensato che scrivere (e ancor di più pubblicare) non è strettamente necessario come un farmaco salvavita. Chi però decide di farlo deve munirsi di strumenti sicuri, così come chi si avventura in mare aperto deve poter contare su carte nautiche affidabili, radar e radio funzionanti etc. Penso ai classici, ai maestri (anche quelli contemporanei). Per me è sbagliato valutare un autore solo in base al numero delle copie vendute (ma anche guardare con sufficienza – a priori – chi gode di un successo di mercato).
Un’altra mia radicata convinzione (come insegnante di italiano e di “scrittura creativa”, ma anche come traduttore e copywriter) è la seguente:
le lingue, oltre ad essere organismi viventi e mutevoli, comprendono diversi livelli, un po’ come gli iceberg: in cui alla parte visibile (quella scritta, quella attestata) corrisponde una parte non visibile (ma ascoltabile: quella parlata) che però è molto più grande (il rapporto, dicono i glaciologi, è di 9 a 1).
L’estrema friabilità dell’arenaria è metafora di un mondo che va scomparendo insieme alle abitudini di una vita semplice, talmente altra da sembrare arcana al pari dei terminiimpiegati per raccontarla. Il viaggio à rebours da lei immaginato ha lo scopo di salvare questa dimensione nella sua interezza: in che mondo la parola può consentirne il recupero?
Solo se non ci si accontenta di usare un vocabolario sempre più ridotto, un lessico sempre più asfittico. Usare (ascoltare, ripescare, rimettere in circolazione) parole poco usate o scomparse può forse ridurre il numero dei potenziali lettori o addirittura sembrare una forma di snobismo.
D’altra parte anche accettare in partenza di scrivere in una lingua dimezzata (magari già pronta per essere riversata in altri linguaggi (film o fiction) mi sembra riduttivo: anzi sbagliato. Non mancano i maestri a cui guardare: Baldini, Gadda, Levi, Loi, Meneghello, Volponi…
Julie, «francesina anglo-italiana», vivrà in un tempo in cui una sola lingua – specialmente la nostra – non basterà più. Posto che ogni idioma è un organismo vivo, da sempre sottoposto a continue mutazioni, il depauperamento del vocabolario italiano è un dato allarmante. Si fa un gran discutere dell’abuso di calchi e prestiti dall’inglese, nonché della generale semplificazione del linguaggio quotidiano. Lei cosa pensa a riguardo?
Una precisazione: la dedica di Arenaria – “Per Julie (quando sarà più grande)” – non è solo il pensierino di un nonno per la propria nipotina ma anche una citazione, un omaggio a Raffaello Baldini, un grande poeta bilingue che scrive/va nel dialetto di Santarcangelo di Romagna (con, a fronte, la traduzione in lingua italiana). Baldini infatti dedica il suo libro Intercity (Einaudi, 2003) alle sue nipotine: “Questo libro è di Adele e di Anna / per quando saranno più grandi”.
Julie, la «francesina anglo-italiana» non è solo la mia nipotina ma una/o dei tanti figli dei nostri figli che oggi vivono e lavorano sparsi per il mondo. Quale lingua, quali lingua parlano e parleranno? L’inglese? Lo spagnolo? Il cinese? A questo proposito non ho mai cambiato idea, dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (quando studiavo a Milano e insegnavo in Sardegna). Va benissimo studiare il milanese e il sardo; giustissimo non dimenticare la lingua di partenza (nel mio caso il “pesarese”, con tutte le virgolette del caso) ma occorre studiare bene l’italiano ma anche l’inglese (o un’altra lingua europea). Oggi, se fossi più giovane, studierei seriamente il cinese.
Quanto alla “generale semplificazione del linguaggio quotidiano” sono decisamente contrario: basta conoscere o solo sfiorare uno dei tanti settori lavorativi (l’agricoltura, la falegnameria, la meccanica, la pesca, la cucina…) per accorgersi di quanto sia ricco e preciso il lessico di questi mondi. Perderlo è/sarebbe un peccato mortale (roba da andare all’Inferno, direbbe Baldini).
Lei si serve dell’ironia per evocare situazioni tra il comico e il tragico, rivelando debolezze e genuinità dell’animo umano. C’è qualche autore che ha rappresentato un punto di riferimento in tal senso?
I miei autori di riferimento? Tanti e diversi tra loro: ci sono autori che non mi stanco di rileggere (scoprendo magari aspetti che in cinquant’anni non avevo mai colto). Un elenco che non finisce più: Manzoni, Melville, i grandi “dialettali (Porta, Belli), Gadda, Meneghello…
Alla fine della giostra però devo dire che il mio autore fondamentale, come narratore, rimane mio padre: Washington Teobaldi, detto Vasìnto, al quale ho dedicato due dei miei lavori: Scala di Giocca (EDES, Cagliari, 1984) e Macadàm (e/o, Roma, 2013).
Il recupero memoriale da lei tentato si muove sul piano di una sfera intima costantemente connessa al tempo della storia. Com’è possibile coltivare il ricordo in un’epoca di iper-connessione ed eterno presente?
È un’operazione faticosa ma, secondo me, necessaria.
Il fasullo “eterno presente” della nostra attuale società iper-connessa è pernicioso, soprattutto per le giovani generazioni. Se infatti accettiamo che esiste solo l’oggi (“Io, qui e adesso”) dei moderni mezzi, ne deriva che non esiste né la storia né la memoria. Insomma una specie di Alzheimer allargato a (quasi) tutta la società: tolte alcune sacche di resistenza dove, secondo me, lavora la narrativa seria.
Recensione di Ginevra Amadio
Nel solco di una tradizione che è al contempo ricordo e propulsione in avanti, Paolo Teobaldi tenta un’originale archeologia dei luoghi attraverso il recupero – ironico e struggente – delle tracce disseminate sul San Bartolo, «monte» il cui punto più alto non supera i 200 metri sul livello del mare. Seguendo l’esempio di suo «padre falegname» (nello scritto La lingua-padre troviamo il racconto di quell’esperienza), l’autore – novello nonno – immagina di percorrere con la nipotina Julie i sentieri di una memoria che slama e sgrotta, costantemente minacciata dall’erosione fisico-esistenziale del territorio che ne è sedimento.
In sella a una bici di umile fattura, lo scrittore conduce la piccola («una bambina di pochi mesi, di pochi anni») in un viaggio a ritroso alla ricerca del tempo, per nominare – e persino indicare con orgoglio – gli aspetti di un mondo andato ma non ancora tragicamente estinto.
Rinunciando ai toni del commiato che mal si addicono a una storia priva di rimpianto, Teobaldi affida alla lingua il compito impervio e delicato della rimembranza dei luoghi amati, spazi vissuti e intimamente animati da una comunità capace di riconoscersi. Da Pesaro in su, guardando al nord-est, la leggerezza teobaldiana restituisce profili di autentica genuinità, donne e uomini forgiati dal dovere e addestrati all’ineluttabilità del destino – figure di scarto, deputate a marcare il divario tra un futuro nebuloso (ma certamente rapido e appiattito) e un passato dalla forte connotazione identitaria. Le rive del San Bartolo rivelano tesori da dissotterrare con cura, come le case sommerse dal mare e le stalle trasformate in «location per eventi», segno evidente e indelebile di una mutazione che si specchia nella friabilità della roccia, quella che da un anno all’altro ha modificato il profilo giacché «è venuto giù un altro trancio», ora piazzato «col culo a mollo nell’acqua di mare, come se fosse stato generato dal colpo di scorcello di un ciclope».
Senza maschere né proiezioni, Teobaldi non cela le tentazioni nostalgiche e rivela piuttosto l’umanissima propensione a narrare per spinte emotive, con uno sguardo che fissa il paesaggio già repleto di suggestioni stratificate e assorbite. Il percorso privato – seppur proprio di un’intimità affollata – del nonno di Arenaria incrocia la storia del paese ma ne coglie i tratti bizzarri, quei cascami di materia usurata e inutilizzabile che per alcuni hanno il valore di prosaica utilità, come «le scodelle degli inglesi» che i Pirón «usavano per servire il pastone alle galline». Certo il passaggio dalle descrizioni al racconto è più frequente che mai, e risponde a un gusto letterario di raffinata ispirazione, ben attento ad affiancare modelli ‘colti’ (su tutti Luigi Meneghello, come nota Barenghi) e tradizione folklorica. Ebbene, al di là della trama parzialmente disomogenea (in realtà riproduzione variata delle ‘voci’ che si perpetuano sino a divenire storie), è il lavoro sulla lingua il pregio indiscusso dell’opera di Teobaldi, voce deliberatamente altra in un panorama letterario affetto da contenutismo e leggibilità livellante.
Lungi dal ridurre la sua verve a vacui esercizi di lessico, egli interviene sul narrato al fine di rendere viva quell’umanità sgangherata, ancora profondamente segnata – nella vita e nei ricordi – da un codice di riconoscimento che si annida nelle locuzioni, in certe espressioni dall’origine buffa come «belpunto», tentativo estremo di «Coso» – «uno dei tenti Cosi di quegli anni» – di convincere una ragazza a ballare con lui. Dinnanzi alla prospettiva di un mondo implacabile, in cui la confusione delle lingue disegnerà nuove storie, il nonno-scrittore ripesca «sott’acqua» le parole sommerse, uniche in grado di far resistere ciò che altrimenti non si nomina più. I personaggi teobaldiani – mezzadri e custodi, pescatori e carrettieri – prendono vita grazie a un socioletto impastato di dialettalismi, frutto di incroci e slittamenti certamente destinati a una lenta decadenza. Da corrusco scartafaccio, allora, Arenaria diviene un dizionario della memoria, la testimonianza di una realtà che parte da Pesaro ma si estende ad altri lidi, al sentimento del luogo, sicché ogni nostalgica notazione può ben adattarsi alla terra di ognuno. «Ci sono cose che è fatica spiegare a parole», come i sapori, gli odori, «il profumo della mentuccia pestata coi piedi, o anche con la schiena, quello delle ginestre in fiore, o l’afrore alcolico dei fichi spiaccicati per terra…».
Il viaggio in bicicletta ne fissa i dettagli, poi l’autore ricostruisce il tutto mediante infinite combinazioni di suoni, elenchi di termini che sfiorano l’onomatopeico e afferiscono, il più delle volte, al codice di un mestiere o a una realtà terragna. Scopo dell’operazione, forse, è ri-portare la letteratura a un sistema di comunicazione, sottraendola per un attimo al dominio dell’acritico inteso come ciò che non turba né interroga la percezione del lettore.
Quel che è certo è che leggendo Arenaria Paolo Teobaldi ci appare come il poeta di cui parla Cristina Campo, colui che un tempo «era lì per nominare le cose […] come nel giorno della Creazione» e «oggi sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte» (Gli imperdonabili).