Questo romanzo ha per me un significato sorprendente. Non ho vissuto nessuna delle vicissitudini dopotutto terribili sperimentate dall’autrice ma soprattutto dalla protagonista, Micol Cohen, che ha rispetto a Daniela Dawan una sua autonomia totale, e una vita propria a tutto tondo – eppure, per una coincidenza tangente e curiosa, al mondo di questa storia, per sovrapposizione, corrisponde in parte la materia di uno scritto mio, che ancora brancola nelle selve editoriali. Il segmento comune è la Guerra dei Sei Giorni, le figure di Moshe Dayan e Nasser, il fautore della Lega Panaraba negli anni Sessanta, e poi una scuola elementare, le algide suore, la restrizione di una bambina tra quelle mura prima che qualcuno venga a tirarla fuori. In questo romanzo assistiamo a margine, ma per nulla marginalmente per i destini di Micol e della sua famiglia, agli esiti dell’atto rivoluzionario di Gheddafi che, spodestando il re Idris, dà luogo alla Libia moderna. E assistiamo, per esito prevedibile, anche alla persecuzione ennesima degli ebrei, nei confronti degli ebrei-italiani di Libia, divisi tra il desiderio di andare in Israele e l’idea, che diventa subito l’unica salvezza concreta, di tornare in Italia, seppure da totali sradicati, come succede al padre di Micol, Ruben, che aprirà un suo ufficio in viale Bruno Buozzi a Roma per andarci ogni mattina e per non combinare, ogni giorno, assolutamente nulla. Un logorante processo di estraneizzazione, di allontanamento progressivo da una vera e propria vita civile, da un vero e proprio inserimento nella vita attiva, che va a sommarsi a una perdita precedente, la morte della primogenita Leah, che è una sorta di segreto custodito gelosamente da Ruben e Virginia Cohen, rimasti ‘orfani’ di questa figlia due anni prima che avessero Micol. Di nuovo questa perdita, la più atroce e assurda in assoluto, senza che esista almeno un nome per definire questo genere di lutto. Eppure proprio gli ebrei hanno quel nome, Veronesi nel suo romanzo dedica alcune pagine a quelle parole da altre lingue, atte a definire il lutto che priva i genitori di un figlio, tra queste l’ebraica, e la parola è: shokul.
Seguono termini da altre lingue, pure dal sanscrito. In effetti tutto il romanzo si regge su questo e punta a questo. Dire di Leah. Dare modo a Micol di incontrare questa sorella mai conosciuta di cui pure sente aleggiare la presenza nella più evidente assenza e di cui nessuno, men che meno i genitori, ritengono di doverle parlare, o svelare il destino.Una domanda sul destino in effetti si fa d’obbligo: ma qual è davvero il nostro destino?
Qual è la via che prende il vento? Qohelet (1,6) a un certo punto risponde: IL VENTO SOFFIA A MEZZOGIORNO, POI GIRA A TRAMONTANA, GIRA E RIGIRA, E SOPRA I SUOI GIRI RITORNA. Micol la legge sopra una pietra bassa e grezza coperta da una fitta rete di steli nel giardino della vecchia casa dei suoi, un rudere oramai da tempo abbandonato. Come Micol è arrivata a quella casa? Grazie ad Alì Fiallah, vecchio amico d’infanzia di suo padre Ruben, un politico per tutte le stagioni, che nei momenti concitati della Guerra dei Sei Giorni, temporeggiando rischiosamente pur di avere il suo risultato, ha ottenuto per molti ebrei, principalmente per tutta la famiglia di Ruben, i visti che permettono loro di prendere un aereo per Roma o per Tel Aviv. È paurosa la scena in cui questi gruppi familiari, nell’ennesimo esodo convulso, passano tra ali di poliziotti schierati in loro difesa mentre i libici islamici rumoreggiano, protestano, minacciano, cercano di colpirli.Anche qui, come nel romanzo di Veronesi, il dialogo (qui costante, lì intermittente) con la morte permette, in termini di tecnica narrativa – diciamo così, di muoversi avanti e indietro nel tempo, rompendo la rigidità di un intreccio che pure pulsa al fondo (questo fa la letteratura), e staccando l’ombra da terra, per parafrasare il titolo del mirabile testo di qualche anno fa di un autore notevole, Daniele Del Giudice.
La bellezza di questo libro sta in quel giardino segreto, dove il destino condurrà la protagonista, nata in un certo modo, scopriremo, proprio per andare fin lì, e restituire pace ad affetti inquieti. Perché infondo è della letteratura ragionare in termini di destino, e (far) compiere fino in fondo il tragitto peril quale un personaggio che ti si presenta e ti tira per la giacchetta, caro autore e cara autrice, si stacca solo per te da una folla indistinta, come accade nella dantesca croce di luci pulsanti.