La Seconda guerra mondiale è finita da pochissimo e sotto il portico di Villa Gialla, ogni domenica, alcuni bambini vengono fatti “sfilare” davanti a una serie di adulti. L’obiettivo è quello di riunire le famiglie o trovarne di nuove e adottive ai bambini che sono rimasti orfani. Joseph fa parte di questo gruppo di piccoli, ha dieci anni e ormai certe cose le comprende e quella cosa di essere mostrati come “messi all’asta” non gli piace proprio. Certo, lo sa che non sono in vendita, che quello è solo un gesto di speranza per assicurare loro una vita migliore, ma fare quei dieci passi gli pesa davvero troppo. O meglio... i primi sono anche passi leggeri, c’è l’ansia di scoprire se i genitori sono venuti a cercarlo, se per lui ci sarà qualcuno disposto a dire: “Voglio lui, voglio adottarlo!”. Il problema si presenta dopo, quando scopre di non avere nessuno interessato a lui e sente Padre Pons dire: “Puoi tornare in refettorio”, che praticamente, ogni domenica, significa la fine delle speranze e rappresenta i passi restanti per tornare orfano. E si confronta con Padre Pons: “Ci riuscirò mai a trovare dei genitori?”, sentendosi rispondere: “Dei genitori... voglio sperare che i tuoi genitori siano sfuggiti al pericolo e che presto si facciano vivi”. La guerra è finita da qualche settimana, è vero, ma la sua famiglia è ebrea e tre anni prima l’ha affidato a degli sconosciuti per salvargli la vita. Ricorda ancora la sua mamma, per Joseph il sole, erano in tram, era il 1942. A un certo punto sono saliti dei soldati tedeschi e come accordato con i suoi genitori, Joseph comincia a recitare il ruolo del bambino muto, per evitare che il suo yiddish possa tradirlo...
La tenerezza dei bambini, la loro inesistente abitudine alla cattiveria, tanto da non capire l’odio razzista... “Anche io sono nato in Belgio”, dice Joseph cercando una motivazione alla discriminazione degli ebrei e al tempo stesso immagina e scatena la sua fantasia per un titolo nobiliare che pensa possa essere assegnato per l’altezza fisica o lo status all’interno dell’orfanotrofio, ovvero esterno, interno, semi-esterno, come se tali livelli potessero rendere uno studente intero o a metà. Non capisce la fuga dei genitori, è tenerissimo il rapporto che instaura con Padre Pons e al tempo stesso ci colpisce con il commento di quei dieci passi sulla passerella in attesa di eventuali genitori, con la speranza prima e la delusione poi. Schmitt, che ha scritto cose egregie per il teatro, conosce la via per toccare le corde del cuore del suo pubblico, sia esso un lettore o uno spettatore e lo fa con sentimenti semplici che però sono in grado di arrivare direttamente in fondo all’anima. E si passa così dalla tenerezza alla sorpresa, dal dolore al sorriso, dalla condivisione di sensazioni alla paura, alla speranza, alla compassione. Joseph è lo strumento di Schmitt per raccontarci guerra e nazismo attraverso gli occhi di un bambino i cui genitori, finché hanno potuto, hanno cercato di tenere lontano dalla realtà. Joseph è il protagonista di questa fiaba e tenta con i suoi limitati mezzi di bambino di darsi spiegazioni. E ogni situazione è una scoperta, anche la prima Santa Messa da cristiano, le statue di un portico, l’acquasantiera. Solo una cosa aveva percepito perfettamente dagli adulti e l’aveva fatta sua, la paura.